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Pellet Made in Italy, una risorsa per le imprese agro-forestali

E’ possibile pensare ai biocombustibili di origine legnosa come stimolo al recupero della gestione dei boschi nel nostro Paese? L’interrogativo è interessante, alla luce delle numerose interrelazioni esistenti tra gli obiettivi energetici nazionali, con particolare riferimento alle rinnovabili termiche ed efficienza energetica, rispetto agli strumenti che sono stati messi in campo in questo senso. Uno dei prodotti più interessanti in questa logica potrebbe essere il pellet, un combustibile densificato, ricavato principalmente dagli scarti di segheria (segatura essiccata e trucioli). Il prodotto si ottiene attraverso la compressione che trasforma scarti legnosi in piccoli cilindri con un diametro di alcuni millimetri (tipicamente da 6 a 8 mm). Proprio grazie a questa pressatura, nell’ambito dei combustibili utilizzabili nei generatori di calore dei moderni apparecchi termici a biomassa, il potenziale energetico del pellet risulta circa il doppio rispetto a quello del legno tradizionale.

Va ricordato che in termini di inquadramento giuridico il pellet rientra nelle biomasse combustibili che rispondono ai requisiti del dlgs 152/06 parte quinta, Allegato X, parte II, Sezione 4, configurandosi tra i materiali vegetali trattati solo meccanicamente e senza contaminanti, ferme restando alcune condizioni in termini di limiti per le emissioni legali in atmosfera e di rendimento termico.

Si ricorda, inoltre, che Il nostro Paese è primo, a livello mondiale, per consumo di pellet per il riscaldamento, con circa 3 milioni di tonnellate annue. L’Italia risulta anche tra i primi importatori al mondo di pellet, con oltre 2,5 Mt/anno, visto che la produzione interna attualmente non è in grado di rispondere alla domanda. Importiamo questo combustibile legnoso soprattutto da Austria e Germania, ma stanno crescendo le importazioni via nave anche da Usa e Canada, una modalità di approvvigionamento che complessivamente ha contribuito a livellare i prezzi e a garantire una distribuzione diffusa in quasi tutte le regioni anche attraverso la Grande Distribuzione Organizzata, ma di fatto non valorizza la biomassa nazionale.

Gli elementi di maggiore interesse del pellet sono costituiti dalle emissioni, inferiori agli altri combustibili legnosi, e dalla possibilità di funzionamento automatizzato e programmabile delle stufe (modulazione della potenza a partire dal 30% circa), con rendimenti oltre il 90% e facilità di gestione delle ceneri. Purtroppo, però, sembra che il settore agroforestale nazionale non riesca ad accedere a questo mercato e gli strumenti messi in campo dal punto di vista normativo non aiutano la nascita di una filiera nazionale di produzione di pellet di qualità a partire dalla biomassa legnosa nostrana. Sono diversi i motivi per cui la produzione interna non riesce a decollare. Il primo è legato al costo elevato dell’energia in Italia (la produzione di pellet è un processo energivoro, che richiede circa 1 MWh di energia termica e 200 kWh di energia elettrica per una tonnellata di prodotto finito), un altro problema è legato all’elevato costo della materia prima: da una parte, infatti, le segherie tendono a valorizzare gli scarti per recuperare redditività e dall’altra, le caratteristiche orografiche dei terreni italiani e il costo del personale rendono poco competitivi i fornitori italiani di legno. Il terzo problema riguarda gli aspetti qualitativi e le modalità con cui sono stati resi oggetto di selezione ai fini dell’accesso ad alcuni incentivi, ma torneremo sull’argomento più avanti.

Tornando al mercato del pellet, si consideri che quasi tutto il prodotto consumato in Italia (il 96%, pari a circa 2,7 milioni di tonnellate nel 2014) è usato nel settore residenziale: l’81% nelle stufe (se ne contano circa 2,2 milioni), il 15% nelle caldaie domestiche (con potenze inferiori a 35 kW) e il 4% in quelle commerciali, cioè con potenza oltre 35 kW. Anche rispetto alle modalità di utilizzo, il prezzo del pellet risulta fortemente ciclico e stagionale. Il periodo migliore per comprarlo è ovviamente quello estivo, mentre nei mesi di maggior consumo, da ottobre a gennaio, il prezzo tende a crescere (in autunno inverno un sacco da 15 kg di pellet certificato si attesta intorno a 4/4,20 euro, ma il prezzo può scendere fino a 3,60 euro al sacco nel periodo primavera-estate).

Per avere un riferimento quantitativo, per riscaldare con il pellet un appartamento di circa 75 metri quadri in pianura padana, servono circa 1-1,2 tonnellate/anno di combustibile, per una spesa che varia tra 250 e 280 euro. Questo nel caso in cui il sistema a pellet sia quello utilizzato in modo prevalente, ma il consumo può variare in funzione di come sono distribuiti i piani dell’abitazione (se su uno o più livelli) e dalla canalizzazione o meno della stufa. Si può risparmiare qualcosa (generalmente un 5% per MWh consumato) se si opta per l’acquisto del pellet tramite autobotte, quindi con quantità ingenti, ma anche in questo caso il combustibile rimane più costoso della legna da ardere e del cippato. Rispetto agli aspetti fiscali, ma sempre con riferimento agli effetti sul prezzo, con la Legge di Stabilità 2015, per l’acquisto del pellet l’IVA è stata aumentata dal 10 al 22% a partire dal primo gennaio 2015, ma gli aumenti di prezzo originariamente paventati per il consumatore finale sono stati quasi completamente assorbiti dai rivenditori al dettaglio, sulla base di una domanda rimasta praticamente stabile fra il 2014 e il 2015 .

Ma come scegliere il pellet? Quando s’intende acquistare del pellet è sempre buona norma fare una breve ispezione visiva, in particolare del fondo del sacchetto: un elevato contenuto di polveri e di pellet rovinati può significare che il prodotto è di qualità scarsa o prodotto in maniera non corretta (il corrispondente parametro tecnico è quello della durabilità meccanica). Un mito da sfatare è invece quello relativo al colore, visto che un pellet chiaro non è assolutamente indice di maggiore qualità rispetto ad uno scuro (dipende solo dalla tipologia essenza legnosa da cui è stato prodotto), mentre il parametro chiave dal punto di vista qualitativo è quello relativo al contenuto in ceneri, che si traduce in un maggiore o minore impatto in termini di emissioni dannose in atmosfera durante la combustione. Quando questo valore è elevato, inoltre, è probabile che anche altri parametri, come zolfo e cloro, superino determinati livelli di concentrazione. In termini qualitativi, quindi, per rientrare nella classe migliore, il pellet deve presentare un contenuto in ceneri pari al massimo allo 0,7% del peso su s.s. (sostanza secca). Chi dispone di stufe domestiche dovrebbe scegliere prodotti con queste caratteristiche o non superare comunque l’1%.

Per dimostrare il livello qualitativo del pellet in questo senso, l’unico strumento attualmente disponibile è quello della certificazione volontaria e per rispettare i suddetti criteri in termini di contenuto in cenere iI pellet per stufe domestiche dovrebbe ricadere nella classe A1 della normativa UNI EN ISO 17225-2, mentre per le classi A2 e B il prodotto dovrebbe essere utilizzato per alimentare le caldaie.

La certificazione, per quanto non obbligatoria, viene, dunque, in aiuto al consumatore che ai fini qualitativi sarebbe costretto a districarsi tra parametri tecnici abbastanza complessi. Si tratta di preferire le certificazioni emesse da enti terzi rispetto a produttori e distributori, tra le quali quella più diffusa in Italia e a livello internazionale è la EN Plus, che fa riferimento alla nuova norma UNI EN ISO 17225-2. Con questa certificazione, per il consumatore è facile individuare il livello qualitativo del prodotto, visto che all’interno del logo di EN Plus, sul sacchetto, viene riportata direttamente la classe di qualità del pellet (A1 o A2), oltre alla presenza di un codice identificativo univoco utile per risalire al produttore e alla nazionalità. La certificazione EN Plus, infatti, basa il proprio controllo lungo tutta la filiera e fornisce uno standard sulle caratteristiche chimico-fisiche del pellet in maniera da ottimizzare l’uso negli apparecchi, visto che oltre al consumatore, anche per i produttori di stufe e caldaie è utile avere uno standard di prodotto per poter calibrare le macchine e perfezionarne il funzionamento.

Se la certificazione è senz’altro un elemento positivo che può aiutare il consumatore nella scelta del pellet, non ne vanno taciuti alcuni limiti. Primo fra tutti la difficoltà di verificare in maniera continuativa i prodotti in commercio. I produttori certificati En Plus, ad esempio, devono obbligatoriamente sottoporsi a una singola ispezione ogni anno e l’organismo di certificazione può richiedere, a sua discrezione, delle verifiche ispettive straordinarie, se si dovesse riscontrare un numero di lamentele significativo.

Tuttavia quella della qualità del pellet resta una questione di particolare complessità e richiede continua attenzione nelle analisi di processo e di prodotto. Il controllo della qualità delle biomasse, infatti, è un’operazione complessa e costosa e i margini della filiera del pellet non sempre sono tali da permettere sforzi economici significativi su questo aspetto.
In sintesi, l’approccio operativo da privilegiare sarebbe quello di tracciare, per quanto possibile, l’origine della biomassa e applicare dei controlli frequenti di laboratorio, considerando pochi ma specifici parametri analitici. Al riguardo, si noti anche che, in adempimento di recenti normative europee sui prodotti legnosi, il pellet rientra nelle procedure di “dovuta diligenza” che i produttori devono osservare, tenendo a disposizione dei controlli documentazione attestante la tracciabilità della biomassa di provenienza.

Ritornando all’interrogativo posto all’inizio, circa la possibilità, da parte del pellet, di concorrere ad un rilancio della gestione boschiva in Italia, bisogna considerare come i parametri qualitativi (specie in termini di contenuto in ceneri) abbiano condizionato la stesura di un importante strumento di promozione dell’efficienza energetica in Italia e cioè il cosiddetto “Conto Termico”.
Si tratta del DM 28 dicembre 2012, che attua il regime di sostegno introdotto dal decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28 per l’incentivazione di interventi di piccole dimensioni per l’incremento dell’efficienza energetica e per la produzione di energia termica da fonti rinnovabili.
Il DM 28 dicembre 2012 predispone un sistema di incentivazione rivolto: alla sostituzione o, in alcuni casi, alla nuova installazione di impianti di climatizzazione e/o produzione di acqua calda sanitaria alimentati a fonti rinnovabili (impianti solari termici anche abbinati a tecnologia solar cooling, pompe di calore, caldaie, stufe e camini a biomassa); alla sostituzione di impianti esistenti per la climatizzazione invernale con impianti a più alta efficienza (caldaie a condensazione); all’efficientamento dell’involucro di edifici esistenti (coibentazione delle superfici opache, sostituzione serramenti e installazione schermature solari)

Ma quali sono i tipi di biomasse ammessi dal Conto Termico? Secondo il testo del decreto del 2012, che è stato recentemente aggiornato e semplificato attraverso la pubblicazione del Conto Termico 2.0 (Decreto interministeriale 16 febbraio 2016, in vigore dal 31 maggio u.s.), tra i tipi di biomasse riconosciuti validi per accedere agli incentivi c’è il pellet certificato da un organismo accreditato e che ne attesti la conformità alla norma UNI EN 14961-2:2011, classe A1 oppure A2 (si noti che la norma UNI citata originariamente nel testo del decreto è stata sostituita dalla UNI EN ISO 17225-2:2014 che, a tutti gli effetti, oggi costituisce la norma europea di riferimento per gli aspetti qualitativi del pellet).

Andando ad analizzare il contenuto della norma EN 17225 vediamo che nella Parte seconda, dal titolo "Biocombustibili solidi – Specifiche e classificazione del combustibile" del 3 luglio 2014, vengono definite le classi di pellet di legno per uso industriale e non. La norma si riferisce solo al pellet di legno ottenuto dalle seguenti materie prime: 1) Bosco, piantagione e altro legno vergine; 2) Prodotti e residui dell’industria di lavorazione del legno; 3) Legno da recupero.
Non è incluso il legno derivante da demolizioni di edifici o di impianti di ingegneria civile, né quello trattato termicamente mediante il sistema di torrefazione, consistente in un blando pretrattamento della biomassa ad una temperatura compresa tra 200 ºC e 300 ºC.

Nonostante l’inserimento di un requisito obbligatorio ai fini dell’accesso agli incentivi previsti dal conto termico, tuttavia, si ricorda che il ricorso alla certificazione del prodotto attraverso una norma UNI resta un intervento del tutto volontario da parte dei produttori e che proprio nell’ambito dei limiti stabiliti dalla norma, per quanto tecnicamente ineccepibili, si individua la principale difficoltà rispetto alle reali possibilità di valorizzazione della biomassa nostrana.

Per tipologie di essenze disponibili e dimensioni dei tagli, la biomassa proveniente dalle operazione di gestione e manutenzione dei boschi italiani, infatti, difficilmente riesce a classificarsi nelle classi qualitative che permettono l’accesso agli incentivi. La conseguenza è che il conto termico finisce per configurarsi come un intervento che favorisce ulteriormente il ricorso alle importazioni dall’estero di pellet e biomassa legnosa. Il sostegno alla produzione dell’energia termica, invece, avrebbe dovuto considerare con maggiore attenzione l’obiettivo del recupero della gestione forestale nel nostro Paese, favorendo la filiera bosco-legno-energia. Il rilancio della gestione dei boschi, infatti, oltre alle note valenze territoriali, sociali e paesaggistiche, potrebbe contribuire in modo decisivo al raggiungimento degli obiettivi del Piano d’Azione Nazionale, secondo il quale le biomasse (tra le quali spicca il ruolo dei prodotti legnosi), devono coprire entro il 2020 il 44% dei consumi di fonti rinnovabili e il 58% dei consumi di calore totale, fornendo biomassa ottenuta con metodi sostenibili (sia nella produzione che nel taglio).

Una proposta alternativa potrebbe essere quella di considerare il pellet sotto un angolazione diversa, accettando, entro certi limiti, un contenuto in ceneri “effettivamente percorribile” volendo produrre pellet partendo dalla biomassa nazionale, considerando le numerose esternalità ambientali legate allo sviluppo di tali filiere in Italia.
Nelle nostre regioni montane, in particolare, le formazioni forestali rappresentano un elemento essenziale per gli aspetti ambientali, economici, energetici e sociali e la valorizzazione energetica degli assortimenti minori (ad esempio: tronchi di piccolo diametro, quali i tondelli dei cedui), in un regime di sostenibilità ambientale, permetterebbe di sviluppare attività economiche di rilievo per il mantenimento della popolazione locale sul territorio.

Seguendo questo principio, si potrebbe pensare a compensare il contenuto in ceneri attraverso un incremento del valore energetico degli assortimenti minori e dei residui selvicolturali (rami, cimali, ecc.) mediante processo di addensamento, da indirizzare alla produzione di pellet, in piccole unità distribuite sul territorio montano. Infatti, molti di questi materiali sono abbandonati in loco, a seguito dell’esbosco, senza alcuna valorizzazione economica, che invece se effettuata potrebbe incrementare il reddito delle imprese boschive e dare al territorio l’energia di cui ha bisogno.

L’addensamento energetico di queste materie seconde è effettuato mediante un processo semplice e poco costoso, la torrefazione (processo tecnologico che attualmente risulta escluso dai criteri di conseguimento della certificazione di qualità attraverso norme UNI), ottenuta mediante il riscaldamento a 250 °C in assenza d’aria. Sotto il profilo processistico, la torrefazione è un’operazione relativamente semplice, che impegna attrezzature di facile gestione: il legno torrefatto così ottenuto è caratterizzato da un potere calorifico doppio rispetto all’originario (oltre 5.000 kca/kg) e dopo una successiva frantumazione potrebbe essere convenientemente utilizzato per la produzione di pellet e conferito al mercato del riscaldamento domestico. In alternativa potrebbe essere inviato alle utenze per il riscaldamento con costi di trasporto ridotti ed, ancora, può essere utilizzato in impianti di cogenerazione con alti rendimenti di conversione.

Sotto il profilo sociale, inoltre, si contribuirebbe a sviluppare imprese boschive che, producendo il legno torrefatto, potrebbero altresì convenientemente occupare un segmento della filiera a valle delle operazioni selvicolturali tradizionali che oggi, di per se, trovano difficoltà in termini di redditività. Si ritiene, dunque, di primaria importanza una revisione della normativa in materia di promozione dell’energia termica e dell’efficienza energetica in generale, che tenga conto delle grandi potenzialità del settore agroforestale nazionale e che sia in grado di fare “i conti” degli impatti positivi e di quelli negativi con un orizzonte di ben più ampie vedute rispetto a quanto è avvenuto sino ad oggi.

Registrato presso il Tribunale Civile di Roma, Sezione per la Stampa e l'Informazione al n. 367/2008 del Registro della Stampa. Direttore Responsabile: Paolo Falcioni.
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