A Marrakech la conferenza sul clima per dare operatività all’Accordo di Parigi
I cambiamenti climatici sono al centro della Conferenza di Marrakech. L’incontro in Marocco fa seguito, tra l’altro, all’ufficiale entrata in vigore dell’Accordo di Parigi, approvato meno di un anno fa in occasione della COP21, che impegna i Paesi firmatari a contenere l’aumento della temperatura media globale “ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli pre-industriali” e “di proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 °C” e di giungere progressivamente a un’economia globale a zero emissioni di carbonio, possibilmente nella seconda metà del secolo in corso. L’effettiva entrata in vigore dell’Accordo di Parigi è stata possibile a seguito del conseguimento, avvenuto il 4 novembre scorso, delle condizioni stabilite dalla Convenzione ONU sul clima che aveva stabilito il termine in 30 giorni dopo che le ratifiche dei singoli Stati avessero garantito il superamento di una doppia soglia: 55 Paesi ad aver depositato la ratifica al tavolo delle Nazioni Unite e che questi, complessivamente, rappresentassero, in termini responsabilità emissive, almeno il 55% delle emissioni mondiali di gas serra. Contro ogni aspettativa, infatti, l’accordo di Parigi ha richiesto meno di un anno per passare le due soglie di ratifica, stabilendo un record rispetto agli altri accordi delle Nazioni Unite, incluso il Protocollo di Kyoto, per il quale sono stati necessari 8 anni prima dell’entrata in vigore. Proprio le ratifiche delle due maggiori emettitori mondiali hanno stimolato gli altri Paesi ad accelerare i processi di ratifica (ora sono 97 i Paesi ad aver già depositato la loro ratifica alle Nazioni Unite). In ogni caso, l’obiettivo principale della COP22 di Marrakech è quello di cominciare a dare operatività all’Accordo di Parigi attraverso: A Parigi i Paesi ricchi s’impegnarono a destinare 100 miliardi di dollari l’anno, fino al 2020, per lo sviluppo di nuove tecnologie energetiche, pulite e rinnovabili, e per l’adattamento ai cambiamenti climatici da parte dei Paesi poveri, tuttavia nel frattempo alcuni Paesi, Usa in testa, hanno manifestato le prime resistenze a dare seguito pratico a queste misure. Sul tema della trasparenza degli impegni di riduzione delle emissioni di gas-serra, a Parigi, inoltre, fu deciso di istituire due diversi standard per il reporting e la verifica: un sistema più stringente di valutazione e revisione internazionale per i Paesi sviluppati e un’analisi più lieve per i Paesi in via di sviluppo. Questo anche perché il testo dell’Accordo richiede a tutte le nazioni di valutare i propri sforzi di riduzione delle emissioni a intervalli di cinque anni e conseguentemente alzare la barra degli impegni. Cosa, in effetti, quanto mai necessaria, visto che gli scenari tracciati sulla base delle promesse di riduzione dei gas-serra che i 195 Paesi firmatari dell’Accordo, indicano l’obiettivo di contenimento dell’aumento della temperatura globale sotto i 2°C è ancora molto lontano da essere raggiunto. Alcune analisi hanno stimato, infatti, che, anche se tutti gli NDC saranno rispettati, il pianeta si troverà esposto ad un riscaldamento dell’atmosfera compreso tra 2,7 e 3,5 °C (ben al di sopra degli obiettivi dell’Accordo di Parigi). Per raggiungere l’obiettivo di mantenere il riscaldamento sotto i 2°C è necessario, infatti, che il livello globale dei gas serra raggiunga il culmine di 54 miliardi di tonnellate di CO2eq entro il 2030 e declini sino a 21 miliardi di tonnellate di CO2eq entro il 2050 e per ottenere questo risultato al massimo entro il 2050 il settore energetico, a livello mondiale, dovrebbe essere completamente decarbonizzato. Nonostante Parigi, quindi pare che l’umanità non si sia ancora incamminata sulla buona strada, continuando a rischiare una serie di conseguenze ambientali disastrose, tra ondate di calore, aumento del livello del mare, danni alle colture, estinzioni di specie e diffusione di malattie. Certo è che, a prescindere dai “numeri” che caratterizzeranno i target delle politiche climatiche, l’Accordo di Parigi rilancia con forza la necessità di rivedere i modelli di sviluppo in funzione dell’emergenza climatica ed in questo contesto, come già evidenziato nell’ambito del Protocollo di Kyoto, l’agricoltura gioca un ruolo determinate. Il settore agroforestale, tuttavia, non può essere considerato alla stregua degli altri settori produttivi in quanto si approccia al cambiamento climatico con una duplice veste: da un lato come settore emissivo e dall’altro come settore che può concorrere agli assorbimenti di carbonio. Il settore agroforestale, inoltre, è quello maggiormente esposto alle conseguenze negative dei cambiamenti climatici e le sue innumerevoli funzioni ambientali, sociali e nel campo della sicurezza alimentare fanno si che vada maggiormente tutelato e supportato. E’ necessario, dunque, che, in ambito climatico, la politica cominci a vedere all’agricoltura più come una soluzione che come ad un problema. Se, da un lato, infatti, esistono dei margini di riduzione degli impatti emissivi del settore (che tra l’altro nei modelli produttivi meno industrializzati come quello italiano e mediterraneo sono modesti), serve al contempo potenziare e sostenere le capacità di assorbimento della CO2 attraverso regole che possano premiare, sul piano della competitività, i modelli produttivi a basso consumo di risorse (acqua, suolo, biodiversità, etc) e a ridotto impatto emissivo. In Italia Coldiretti da anni sta portando avanti una strategia in questo senso, in coerenza con gli indirizzi della PAC, per un recupero dell’economia di prossimità, attraverso i farmer market ed il Km0, che, grazie ad una crescente sensibilità da parte del consumatore, costituiscono un forte impulso verso nuovi modelli di consumo consapevole, basati sulla preferenza da assegnare alle produzioni agroalimentari stagionali e locali (anche per ridurre le emissioni trasporto della materia prima). Certo è che la vicenda climatica è un problema che va affrontato soprattutto a livello di coscienza individuale e la modifica dei modelli di vita e di consumo costituiscono un passaggio fondamentale e la vera sfida da vincere. Ma per arrivare a ciò servono scelte mirate per tradurre quello che oggi, di fatto, è ancora frutto di un alleanza tra produttore agricolo e consumatore su base volontaria e sulla base di una crescente coscienza individuale, in una vera e propria occasione di miglioramento della competitività del settore agricolo. Le battaglie sull’etichettatura, la lotta agli ogm, la lotta alla perdita di suolo, ambiti in cui Coldiretti vanta un protagonismo di rilievo – testimoniato anche dlla partecipazione in importanti consessi civili, quali, ad esempio, la stessa Coalizione clima – rappresentano tessere dello stesso mosaico: creare le condizioni per fare del clima un occasione di “distinzione” tra modelli di produzione agricola sostenibile e modelli basati sull’industrializzazione e sullo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali. Ma rispetto a questo obiettivo l’iniziativa dell’agricoltura da sola non basta. L’economia di prossimità ha bisogno di un approccio integrato basato sulla valorizzazione del territorio come risorsa e questo riguarda tutti i settori (energia, infrastrutture, industria) per un paradigma in grado di valutare in modo concreto gli impatti territoriali (e conseguentemente ambientali e climatici) dei diversi modelli di sviluppo perseguibili, “scegliendo” in modo responsabile una via da imboccare per il futuro senza ulteriori esitazioni. L’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi dovrebbe servire anche, a livello europeo, a modificare alcune impostazioni che, ad esempio, non permettono di valorizzare economicamente il contributo degli assorbimenti di carbonio da parte del settore agroforestale, mentre continuano a ragionare in un ottica vincolistica nei confronti del settore agricolo col rischio di produrre aggravi di costi insostenibili e mettere, paradossalmente, a rischio il contributo positivo che l’agricoltura sostenibile può dare all’ambiente ed al clima. L’agricoltura italiana è pronta a fare la sua parte, ma chiede che i suoi sforzi vengano riconosciuti e sostenuti. Una diffusione del modello agricolo industriale, che ancora oggi viene spesso dipinto come unica soluzione al problema della fame del mondo, sarebbe un enorme danno in termini climatici ed ambientali, mentre il recupero dell’economia di prossimità rappresenta una soluzione non solo per l’agricoltura italiana ma anche in quei paesi dove il problema è garantire l’accesso ai terreni agricoli da parte delle popolazioni locali. |
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