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Canapa, cosa cambia dopo la sentenza della Cassazione

La coltivazione della canapa in Italia rischia di subire pesanti contraccolpi a seguito della recente sentenza delle sezioni unite della Cassazione, che, essendo priva delle motivazioni utili a definire il cosiddetto limite drogante (in altre parole il livello di THC consentito alla vendita nei vari sottoprodotti), rende l’interpretazione della decisione apparentemente restrittiva.

Rispetto all’acceso dibattito che interessa per lo più le caratteristiche psicotrope della “cannabis”, va sottolineato che per la canapicoltura classica non dovrebbero esserci dubbi interpretativi circa il limite dello 0,2% di THC, sebbene, paradossalmente, i canapicoltori si trovino oggi ad operare in un clima di incertezza generale che sta mettendo a rischio le prospettive di un settore che in Italia, nel giro di pochi anni, ha visto aumentati di dieci volte i terreni coltivati a “canapa” (la differenziazione della denominazione è voluta, la pianta è la medesima, ma in ambito industriale è meglio intendere la varietà sativa industriale come nettamente distinta, proprio per il basso contenuto di principio attivo psicotropo THC delle 64 varietà autorizzate alla piantumazione), passando dai 400 ettari del 2013 ai quasi 4000 del 2018.

Numerose sono, infatti, le varianti produttive della canapa che interessano l’alimentare, dai biscotti e dai taralli al pane di canapa, dalla farina di canapa all’olio, ma c’è anche chi usa la canapa per produrre ricotta, tofu e una gustosa bevanda vegana, oltre che la birra. Dalla canapa, inoltre, si ricavano oli usati per la cosmetica, resine e tessuti naturali ottimi sia per l’abbigliamento, poiché tengono fresco d’estate e caldo d’inverno, sia per l’arredamento, grazie alla grande resistenza di questo tipo di fibra. Anche nella bioedilizia la canapa viene usata per produrre eco-mattoni caratterizzati da buona capacità isolante. A questi prodotti si aggiunge il pellet di canapa per il suo impiego nel riscaldamento.

Oggi, dunque, come ha sottolineato il presidente della Coldiretti Ettore Prandini, “c’è una diffusa consapevolezza internazionale delle opportunità che possono venire da questa coltura ed è pertanto necessario, su un tema così delicato, l’intervento del Parlamento. Si tratta, infatti, di tutelare i cittadini senza compromettere le opportunità di sviluppo del settore con centinaia di aziende agricole che hanno investito nella coltivazione della canapa, dalla Puglia al Piemonte, dal Veneto alla Basilicata, ma anche in Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna”.

La preoccupazione di quella che viene denominata filiera industriale della canapa, così come definita negli ambiti applicativi della legge n. 442 del 2016, oggi risiede in modo particolare sui contraccolpi che stanno scaturendo dalla sentenza della Cassazione che ha ribadito il divieto di commercializzazione di cannabis con effetto “drogante”, senza puntualizzarne ancora il quantum effettivo.

Il problema, infatti, va ben oltre la corretta interpretazione giuridica del provvedimento (che pure lascia molte zone d’ombra su quali prodotti derivanti dalla canapa si possano commercializzare e quali no), visto che, a prescindere da ciò, si sta assistendo ad una ondata di ritiri precauzionali dal commercio, da parte dei maggiori esponenti della Gdo, di prodotti a base di semi decorticati, farina, olio, paste, biscotteria dolce e salata e barrette energetiche, che ormai possono definirsi parte integrante della cultura gastronomica europea ed italiana e che da tempo affollano i banchi delle maggiori catene della distribuzione organizzata e dei negozi specializzati in prodotti bio.

Questi prodotti, infatti, fanno parte in maniera sempre più assidua dei listini di operatori importanti della distribuzione e della vendita che già da soli muovono 150 milioni di fatturato l’anno, con una parte rilevante che deriva proprio dalla commercializzazione dei prodotti provenienti dalla canapa.

“Tutti questi prodotti”, afferma Alessio Gaggiotti, imprenditore agricolo da anni impegnato nella coltivazione di canapa industriale, “hanno un quantitativo di THC minimo, e di certo non drogante”. “La legge del 2016” – prosegue Gaggiotti – “sancisce il diritto di poter piantare e quindi raccogliere quanto derivante dalla semina, legittima, delle 64 varietà ammesse nel catalogo europeo, con concentrazioni di THC ammesse, al di sotto dello 0,2%. L’agricoltore che con prove incontrovertibili si sia adoperato per coltivare una di queste varietà, escludendo l’utilizzo di semenze non certificate o di prodotti non conformi alle specifiche emanate dal Mipaaft, dovrebbe essere in qualche maniera rassicurato circa la possibilità di continuare ad operare in questo settore”.

Sarebbe quindi utile, e a questo punto addirittura vitale, che, da parte del Ministero della Salute (che avrebbe dovuto da tempo, in attuazione della legge del 2016, emanare un decreto sulle soglie di THC ammesse per gli alimenti), ma anche da parte del Mipaaft, si potesse confermare, per la canapa, la possibilità di seminare, ma anche di raccogliere, essiccare, separare il seme e le biomasse da questo residue, oltre che avviare “tranquillamente” queste tipologie di prodotti alla commercializzazione, contemplando livelli di THC (minimi) derivanti da trasformazioni meccaniche tipiche della canapicoltura italiana, ancora non massiva e ancorata a micro produttori. Al riguardo, si deve osservare, ad esempio, che le presse da semi oleosi determinano negli olii e quindi nelle farine lievi variazioni al rialzo di tutti gli oligoelementi tipici della canapa sativa, diversamente da quanto avviene nei processi di raffinazione di livello industriale.

Il mercato europeo dei prodotti della canapa vale già oggi, infatti, 400 milioni di euro, con prospettive di raggiungere i 40 miliardi entro la fine della prossima decade, ma la “confusione” che sta investendo questa filiera, colpevoli anche frequenti fenomeni di distorsione mediatica, sta travolgendo direttamente anche prodotti che non avrebbero dovuto risentire degli effetti della sentenza della Cassazione (rivolta essenzialmente a contrastare gli usi collegati agli effetti psicotropi della cannabis e, ricordiamo, non ancora dotata del supporto delle motivazioni che ne dovranno chiarire l’efficacia).

Tutto ciò si sta trasformando in una ondata delegittimatrice di tutto il settore che coinvolge anche operatori come quelli del credito che, non avendo riferimenti certi sul piano giuridico, stanno annullando finanziamenti già in itinere oltre a chiedere il rientro dei fidi ai canapicoltori.

Un dato è certo: la campagna annuale è in corso, le semine sono state fatte, così come l’acquisto di macchinari e strumentazioni e la loro manutenzione, compresa quella dei siti di stoccaggio, sono in itinere, ma gli agricoltori, a seguito del protrarsi di tale situazione, rischiano di vedersi pregiudicare in modo irreparabile gli investimenti che, come detto, interessano oltre 4000 ettari, anche sulla base di un crollo “su base prudenziale” della domanda interna (ad oggi sembra che nemmeno le paglie, sebbene tradizionalmente di difficile collocazione commerciale, siano vendibili e questo è di certo paradossale).

E pensare che, invece, sarebbe importante, anche per la tutela degli investimenti già realizzati, in termini di promozione della filiera, sia dallo Stato che dai privati, tutelare, se non addirittura rendere oggetto di incentivo la coltivazione di questa pianta dai molteplici usi e particolarmente adatta per le sue caratteristiche ad entrare a pieno diritto tra le colture protagoniste del settore della bio-economia.

Registrato presso il Tribunale Civile di Roma, Sezione per la Stampa e l'Informazione al n. 367/2008 del Registro della Stampa. Direttore Responsabile: Paolo Falcioni.
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