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Cresce il consenso degli italiani verso la caccia

Il 56 per cento degli italiani è favorevole all’attività venatoria se legale e cioè normata, limitata, responsabile e sostenibile. Il dato sintetizza i risultati di un’indagine demoscopica svolta nel 2013 da AstraRicerche per il Comitato Nazionale Caccia e Natura (CNCN), Face Italia e Arcicaccia. Lo studio, presentato a Roma, è stato realizzato nella prima decade di giugno 2013 tramite 2.025 interviste (per circa la metà on line e per l’altra parte telefoniche) effettuate ad un campione rappresentativo degli Italiani.

Tra i risultati di maggiore interesse si segnala quello relativo all’evoluzione del rapporto personale degli Italiani con la caccia. È emerso, infatti, che ben il 49,2 per cento degli intervistati (in incremento dell’1,2 per cento) è, in qualche modo, vicino alla caccia, o perché la pratica, o perché accompagna altri nelle loro attività venatorie, oppure perché ha famigliari o amici cacciatori, o, infine, perché è stato o è cacciatore. I cacciatori, in totale, sarebbero circa 900mila (dato coerente con i risultati dello stesso studio effettuato tre anni fa).

Il profilo di chi va a caccia vede il predominio degli uomini, in media sotto i 35 anni, residenti al sud e nei comuni medio‐piccoli. Ciò smentisce la tesi, diffusa anche nel mondo venatorio, per cui andare a caccia sarebbe un’attività prevalentemente ‘vecchia’ e propria dei gruppi sociali più marginali.

Va rimarcato, inoltre, che il livello di accettazione/sostegno per l’attività venatoria è maggiore della media nei comuni rurali e, abbastanza sorprendentemente, nei comuni con parchi.
Un altro elemento analizzato riguarda il giudizio sulla caccia, che vede sia il prevalere delle valutazioni positive, sia l’incremento di queste ultime (con un ‘guadagno’ in tre anni di quasi 5 milioni di adulti). I giudizi negativi, o almeno preoccupati, riguardano, in particolare, la pericolosità dell’attività venatoria e la minaccia che può costituire per le specie animali.

Le valutazioni pro‐caccia, invece, insistono sul fatto che essa è un’attività antica; che risulta severamente limitata e regolamentata da direttive europee, da leggi nazionali, da norme regionali e provinciali ed è utile per evitare che certe specie animali crescano troppo a danno dell’agricoltura e dell’ambiente.

Colpisce il miglioramento del consenso all’item relativo alla limitazione e regolamentazione dell’attività venatoria, la cui notorietà è cresciuta di ben venti punti percentuali (con un incremento di quasi due terzi rispetto a tre anni fa). È stato poi verificato il consenso sociale verso i cacciatori in Italia. È emerso che coloro che s’impegnano nelle attività venatorie sono oggetto di un giudizio più favorevole rispetto a quello che concerne la caccia: infatti, i “simpatetici” sfiorano il 62 per cento della popolazione adulta, con un incremento recente di oltre sette punti percentuali.

Il trend di giudizio sui cacciatori italiani dell’ultimo triennio resta, infatti, positivo (specie per quel che attiene al rispetto delle norme, alla responsabilità, all’edonismo e all’estroversione); coerentemente appaiono in netto calo le valutazioni negative (per es. cala di quasi un terzo quella relativa alla “cattiveria” ed alla “inumanità” percepite).

Di particolare rilevanza si è confermata la questione dell’informazione sulla caccia: anche qui il trend mostra il netto calo degli ignoranti, totali o semi‐totali, dal 38 per cento al 33 per cento, evidentemente anche grazie alle strategie comunicazionali messe in atto dal mondo venatorio.
Si conferma, inoltre, l’esistenza di una correlazione statistica assai forte tra la notorietà delle norme, il consenso per esse e la buona valutazione della caccia: coloro che si dichiarano ostili alla caccia risultano, infatti, assai meno informati della media.

L’edizione 2013 dello studio, inoltre, ha analizzato anche temi non affrontati nelle versioni precedenti, a partire dalla cultura animalista. Rimandando alla lettura integrale dello studio per i numerosi dati sull’argomento, è interessante segnalare come molti soggetti che si dichiarano animalisti, al dunque, non sono affatto ostili all’uccisione di animali a talune condizioni: basti dire che il 56 per cento degli Italiani è favorevole se si tratta di ricavare alimenti per gli umani (come carne, pesce, ecc.); il 49 per cento se gli animali sono pericolosi perché aggrediscono gli umani o portano malattie; il 49 per cento se servono agli scienziati per scoprire l’origine di certe malattie e trovare adeguate terapie; il 48 per cento se gli animali appartengono a specie selvatiche non a rischio di estinzione ma anzi sovrabbondanti e/o che rovinano le coltivazioni ecc..

È stato esplorato anche il favore per le organizzazioni animaliste, approvate senza riserve dal 49 per cento e criticate dal 51 per cento. Per il campione intervistato, queste appaiono divise in alcune organizzazioni moderate e responsabili e in altre all’opposto, intolleranti e violente (40 per cento), spesso ideologiche e di parte (36 per cento) e/o espressione di precisi interessi politici (30 per cento) o economici (29 per cento), talora quasi terroriste (21 per cento).

In generale, risalta la differenziazione tra le organizzazioni animaliste e quelle ecologiste: sempre secondo lo studio le ecologiste godono di un consenso assai più ampio. La ricerca evidenzia, infatti, che il principale vantaggio delle organizzazioni che si occupano di tutela dell’ambiente risiede nel fatto che l’ecologismo di massa sia riuscito ad incidere anche sui comportamenti predominanti degli Italiani, i quali da anni cercano di dare un proprio apporto personale al miglioramento dell’ecosistema. L’animalismo, invece, appare indebolito da molti comportamenti incongrui e cioè dal fatto che l’81 per cento degli Italiani mangia carne, l’80 per cento pesce, il 27 per cento selvaggina, per cui l’animalismo concreto e coerente non supera il 20 per cento mentre l’ecologismo concreto è pieno e coerente per il 34 per cento e comunque significativo per un altro 48 per cento.

In coerenza con i dati della ricerca, va rimarcato lo stretto rapporto esistente tra caccia e agricoltura che, al di là della comune adesione ad un modello culturale omogeneo, si consolida nell’ambito della promozione dell’economia rurale di cui proprio la caccia può costituire una componente essenziale, specie recuperando le proprie responsabilità nella difesa dell’ambiente.

La caccia, infatti, tende sempre più a configurarsi anche come un’opportunità di lavoro per l’imprenditore agricolo, generando un ritorno di interesse per la campagna come stile di vita e cultura dell’alimentazione e dell’ambiente.

Dall’incontro e dal dialogo tra agricoltori e cacciatori, infatti, potrebbe discendere la messa in campo di alcune condizioni per lo sviluppo del sistema insediativo e dei servizi, in grado di valorizzare il patrimonio delle tradizioni delle comunità rurali, oltre a proporre un modello coerente con la vocazione produttiva di piccole imprese agricole, preservando alcuni mestieri e attitudini professionali.

Sarebbe dunque auspicabile che Associazioni venatorie, Ambiti territoriali di caccia e mondo agricolo dessero il via ad una ampia sottoscrizione di accordi per il coinvolgimento degli agricoltori nella gestione del territorio. Sostenere i rapporti positivi tra agricoltura, ambiente e caccia può, infatti, essere la base di un nuovo patto con la società, per opporsi alla compromissione del territorio agro-silvo-pastorale e, nel contempo, rilegittimare l’attività venatoria.

Registrato presso il Tribunale Civile di Roma, Sezione per la Stampa e l'Informazione al n. 367/2008 del Registro della Stampa. Direttore Responsabile: Paolo Falcioni.
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