il Punto Coldiretti

Grano: le lacrime di coccodrillo dei pastai

Strani giri di valzer sulla pasta. Per una vita alcuni pastai hanno ripetuto fino alla noia che l’abitudine di acquistare grano duro dall’estero non era un dispetto agli agricoltori italiani, ma solo la necessità di garantire un adeguato valore proteico che, a dire degli industriali (solo una parte per carità), il frumento nazionale, almeno per una parte consistente, non contiene.

Ora invece, in un momento critico, con l’impennata dei costi di produzione che sta sparigliando le carte economiche in tutto il mondo e con le materie prime diventate “petrolio” si scopre che il grano scarseggia “e ci dobbiamo abituare al fatto che possa finire” e che “il grano italiano al momento è quello che costa meno al mondo”. E allora quale sarebbe la strada obbligata e corretta? Rivolgersi alle aziende agricole italiane. E invece no: ad accaparrarsi il prezioso frumento duro made in Italy sono le imprese della Tunisia dove “all’ultima asta è stato venduto parecchio grano italiano alle industrie locali perché lo pagano meglio”. A parlare è un produttore agricolo italiano? E’ la Coldiretti? No, è Riccardo Felicetti, amministratore dell’omonimo pastificio nonché presidente del Gruppo Pasta in Unionfood, che in un’intervista al Sole 24 ore spiega ancora “E’ la legge del mercato certo, ma in un momento di scarsità come quello di oggi, forse queste cose non dovrebbero succedere”.

Insomma la colpa, per Felicetti, ancora una volta è degli agricoltori. Prima perché non producevano garantendo gli standard richiesti dall’industria, oggi perché “si permettono” di vendere alle industrie tunisine che, forse, più lungimiranti di quelle italiane, pagano il giusto per un prodotto di qualità. Ma gli stessi industriali (nella pagina del quotidiano c’è un intervista anche a Divella) riconoscono che il grano acquistato dal Canada costa 65 centesimi a fronte dei 56 di quello tricolore.

Qualcosa non torna. Anzi più cose. E forse si capisce il perché della battaglia a oltranza ingaggiata dagli industriali, e ribadiamo solo una parte perché molti pastifici hanno capito bene dove andava il consumatore, contro l’etichetta con l’indicazione dell’origine del grano utilizzato voluta con forza, e dopo anni di faticose battaglia (e tanti attacchi, non solo dall’industria!), dalla Coldiretti.

Lo stesso Felicetti, che fa sapere oggi che l’industria tunisina apprezza il grano tricolore, nel 2016 nella veste di presidente dei pastai di Aidepi, sull’etichetta esprimeva delusione perché pronosticava una perdita di competitività della pasta sul mercato nazionale e internazionale. E per spiegare la posizione, sempre la solita litania, e cioè che la pasta è la migliore del mondo per il know how e che comunque il frumento italiano di qualità non è sufficiente e spesso non raggiunge gli standard elevati richiesti dall’industria.

Da qui un “obbligo” a rifornirsi sui mercati esteri. Salvo poi scoprire sei anni dopo che a scippare la eccellente materia prima italiana sono i tunisini. E questo, sempre ad avviso di Felicetti, non si dovrebbe fare.

Queste dichiarazione oggi come ieri confermano, a volere essere buoni, solo una grande confusione. Intanto però i consumatori sono andati avanti e privilegiano sempre di più le confezioni realizzate col grano duro nazionale, addirittura regionale. E l’etichetta, che secondo Felicetti avrebbe potuto compromettere il futuro del nostro piatto tipico, non solo non ha scalfito, ma ha sostenuto la crescita della pasta tricolore.

Ma che senso hanno in tempi difficili per la pandemia e l’impennata dei costi energetici queste polemiche, mentre sarebbe più giusto e corretto per il bene non dell’agricoltura italiana, ma dell’intero sistema Paese, rilanciare sui contratti di filiera riconoscendo, una volta per tutte, qualità e prezzo giusto alla produzione nazionale evitando così gli scippi oggi di Tunisi e domani di altri Paesi?

Ma soprattutto con onestà intellettuale non è arrivato il momento di riconoscere che la Coldiretti aveva ragione: solo con la difesa del made in Italy si potrà salvare la nostra agricoltura non più settore residuale, ma strategico, soprattutto in questi difficili anni segnati dal Covid.

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