il Punto Coldiretti

Ricerca in agricoltura, nuovi strumenti per nuove esigenze

L’evoluzione del ruolo del settore agricolo necessita di un cambiamento di approccio anche nel campo del trasferimento tecnologico. In questo ambito risultano interessanti alcuni nuovi strumenti europei, come l’Eip-Agri Network 2015. Se l’importanza dell’innovazione in agricoltura è ormai un concetto ampiamente condiviso – tanto da essere al centro anche delle politiche comunitarie in quanto fattore determinate per la competitività del settore agricolo nel lungo termine – appare sempre più evidente, infatti, la necessità di una strategia appropriata ai tempi, visto che molte delle convinzioni relative ai processi innovativi in agricoltura, con riferimento al passato, rischiano oggi di non essere più valide o, comunque, sufficienti.

Rispetto al secolo scorso, caratterizzato da una notevole crescita della produttività delle risorse agricole, oggi il paradigma della competitività, lo scenario economico ed il ruolo dell’impresa agricola risulta profondamente cambiato e necessita di una rivisitazione del sistema di produzione e trasferimento delle innovazioni tecnologiche.
Continuare a puntare esclusivamente sull’aumento delle performance produttive, che nella seconda metà del secolo scorso hanno registrato un grande aumento (nell’arco di 50 anni – dal 1950 al 2000 – la produttività per ettaro è cresciuta di quasi il 150%, quella del lavoro agricolo di quasi il 75% e la produttività totale dei fattori di produzione di circa il 55%) significa, infatti, misurare il progresso tecnologico delle imprese in modo incompleto, se non fuorviante.

Le innovazioni del secolo scorso, quelle che hanno portato al grande salto della produttività, infatti, hanno interessato principalmente il “processo” e sono state caratterizzate essenzialmente da un risparmio di risorse e/o aumento di rese in maniera generalizzata (anche se non omogenea) tra diversi contesti applicativi e costituite da pacchetti tecnologici da adottare per intero senza specifici sforzi di adattamento e, talora, neanche di apprendimento. il loro avvento, tra l’altro, si è combinato con altri fattori che ne hanno favorito adozione e diffusione, quali la crescente scolarizzazione ed informazione dei lavoratori agricoli, l’insieme di servizi ed istituzioni finalizzate ad informare gli agricoltori circa l’esistenza di nuove soluzioni tecnologiche e la loro appropriata applicazione.

Questi grandi risultati hanno consolidato una visione basata su un rapporto causa-effetto tra investimento in ricerca/diffusione informazioni/crescita del livello culturale degli imprenditori agricoli e crescita di produttività agricola. Questa visione ha finito attribuire un primato, in termini di importanza, alla ricerca, ai sui attori e alle sue istituzioni e regole. Tale centralità ha teso a privilegiare un flusso di conoscenza “dall’alto al basso” (top-down), basandosi sulla convinzione che l’innovazione rimane sostanzialmente science-based, cioè una soluzione “pre-confezionata” offerta dalla scienza a favore di più o meno numerose applicazioni “a valle”, tra cui l’agricoltura. Da qui, la grande enfasi sul finanziamento pubblico, sul ruolo della ricerca privata e sui possibili meccanismi incentivanti e la grande attenzione alla proprietà intellettuale della conoscenza e delle innovazioni.

Tuttavia, soprattutto nell’ultimo decennio, è emersa una lettura decisamente più critica di tale approccio, specie rispetto alla sua capacità di affrontare il presente e il futuro.
In questa nuova lettura prevale la convinzione che i grandi guadagni di produttività agricola messi in mostra negli ultimi decenni non derivino solo da contributi della scienza e della ricerca, in qualche modo poi trasferiti a “valle” verso gli impieghi produttivi, ma siano il risultato di una diffusione di conoscenza pratica, applicativa ed efficace che solo in piccola parte trova la sua matrice nella ricerca di base e più spesso dipende dalle fasi a “valle” (divulgazione e assistenza tecnica), nonché dalla generalizzata maggiore circolazione delle informazioni e altrettanto generale e imponente crescita del livello medio di scolarizzazione e di formazione del personale agricolo.

In questo senso, l’aver concentrato l’attenzione (e le risorse) solo su una porzione della conoscenza scientifico-tecnologica, nonché su una idea codificata di innovazione, è da considerarsi un limite, soprattutto perché questa impostazione rischia di lasciare ad uno sviluppo largamente spontaneo, poco governato e poco finanziato, quelle forme della conoscenza e quei processi innovativi informali, taciti, diffusi e graduali che hanno rappresentato il vero motore del “miracolo” della crescita della produttività del secolo scorso.

Alla base di questa critica vi è l’idea che il bene di riferimento di tutto l’impianto del trasferimento tecnologico in agricoltura sia qualcosa di sostanzialmente diverso da quanto immaginato nella visione tradizionale. Non si parla più, quindi,  di una conoscenza scientifica di rango accademico, né di conoscenze incorporata in soluzioni tecnologiche proprietarie, bensì di una conoscenza diffusa e quindi collettiva che produce tanto più vantaggio quanto più è “pubblica”, cioè di libero accesso ed estendibile a tutti gli ambiti applicativi territoriali e settoriali.

Nell’ultimo decennio, inoltre, l’idea di un necessario ripensamento sul sistema è stata rafforzata dalle nuove e crescenti sfide che l’agricoltura globale è chiamata ad affrontare nel prossimo e nel lontano futuro, non ultima quella legata ai cambiamenti climatici.
Accanto alla sfida principale del secolo scorso, e cioè la capacità di produrre cibo a sufficienza per una popolazione mondiale in crescita nei numeri e nei livelli di consumo (food security), oggi si pone un’altra fondamentale questione: quella sfida va vinta solo a precise condizioni tra cui la principale è quella della compatibilità ambientale o, detto in maniera più propria, della sostenibilità.

La seconda condizione è quella della multifunzionalità. L’agricoltura del futuro dovrà necessariamente avere la capacità di produrre, oltre ad alimenti, anche altri beni e servizi non-food, pubblici o comunque di interesse collettivo. Certo, tra questi ci sono i servizi ambientali che ci riportano alla sostenibilità, ma, soprattutto nelle società ricche e post-industriali, all’agricoltura viene richiesto anche di produrre paesaggio e valori estetici, servizi culturali e ricreativi, benessere fisico e mentale, ecc., nonché di essere garante, quale primo anello della filiera alimentare, di food safety e food quality; cioè, garantire sicurezza sanitaria, nutrizionale, ambientale ed etica degli alimenti, nonché la loro origine e provenienza.

Sostenibilità e multifunzionalità, tuttavia, richiedono una produzione di conoscenza e di innovazioni di natura diversa rispetto alla convenzionale sfida della food security. Servono sempre più innovazioni di prodotto (o di funzione), più che di processo; innovazioni organizzative e di marketing oltre che tecnologiche; innovazioni più complesse e, soprattutto, una conoscenza più ampia rispetto a quella relativa ai “soli” processi produttivi e ai “soli” mercati agricoli.
Il sistema del trasferimento tecnologico in agricoltura va, dunque, ridisegnato al fine di fronteggiare queste sfide e cogliere le opportunità offerte dai cambiamenti tecnologici in corso.
In altre, parole, questo nuovo paradigma tecnologico dovrebbe consistere in una nuova dimensione innovativa che si aggiunge a quelle di processo e di prodotto: si tratta dell’innovazione di funzione (o funzionale).

E’ bene sottolineare che oggi introdurre nell’esercizio dell’impresa agricola nuove attività o business è di norma il risultato non tanto di innovazioni tecnologiche in quanto tali, bensì di innovazioni organizzative, gestionali/manageriali, di marketing.
La necessità di un evoluzione verso un nuovo paradigma tecnologico, inoltre,  modifica sostanzialmente i confini settoriali. L’ampiezza di questo spazio innovativo potenziale verso una molteplicità di nuovi prodotti e funzioni espande e rende meno netti i confini di ciò che consideriamo “settore agricolo” rispetto ad altri settori con qui questa espansione va a sovrapporsi e, quindi, convergere: il food sector, in tutte le sue varie fasi; il settore del recupero, della tutela e della riqualificazione ambientale; il settore energetico; il settore turistico e delle attività culturali, educative e del tempo libero.

Proprio per meglio comprendere le nuove traiettorie tecnologiche, quindi, è evidente la necessità di ampliare quelli che tradizionalmente erano i confini propri dell’agricoltura e dell’industria alimentare verso una più ampia e inclusiva combinazione settoriale oggi identificata, secondo un’accezione ormai prevalente, come economia bio-based o, più semplicemente, con il termine di bioeconomia.
E’ interessante notare come in questa difficoltà di adeguare, non solo in agricoltura, il sistema della conoscenza e dell’innovazione alle nuove tendenze possiamo individuare la radice di un paradosso tipicamente europeo. Infatti, proprio nel periodo in cui l’agricoltura europea sta ridisegnando le sue funzioni e, quindi, sta ridefinendo le sue scelte tecnologiche e produttive nel senso della maggiore compatibilità ambientale e della multifunzionalità, all’agricoltura europea viene contestato un calo di produttività e, quindi, implicitamente, una ridotta capacità innovativa.

Ciò ci segnala la difficoltà di cogliere come e quanto questo sistema stia contribuendo a definire i nuovi orizzonti produttivi e tecnologici dell’agricoltura europea, evidentemente oggi non più riconducibili all’ormai datata visione produttivistica del settore.
In ogni caso, l’evidenza dimostra come le performance innovative di un’agricoltura non siano il risultato di un semplice processo lineare, unidirezionale, che va dalla produzione della conoscenza (ricerca) alla sua applicazione produttiva, bensì l’esito di complesse interazioni sistemiche tra diversi soggetti ed istituzioni coinvolte in vario modo nella produzione e diffusione della conoscenza, e nella sua incorporazione in soluzioni innovative applicabili.
Questa visione, sostanzialmente non gerarchica, bensì fondata sulla quantità e qualità (cioè intensità) delle interazioni, dei flussi di conoscenza, più o meno incorporata, e delle informazioni all’interno di questo sistema, è l’elemento che viene maggiormente esaltato nelle proposte di riassetto del cosiddetto Scia (Sistema della Conoscenza e dell’Innovazione in Agricoltura).

Si tratta di proposte in cui il sistema non sia tanto un’articolazione di astratte componenti istituzionali interagenti, quanto, piuttosto, un network di soggetti eterogenei (anche all’interno della stessa componente) e dinamici interagenti secondo forme e modalità a loro volta in continua evoluzione. Si tratta di soggetti che travalicano i confini tradizionali del sistema, giacché in questo insieme di interrelazioni, diventano rilevanti anche i consumatori organizzati, i gruppi di pressione, i movimenti di opinione; insomma, una vasta gamma di stakeholders. Non solo, quindi, si perde la dimensione gerarchica, ma la stessa statica distintività di fasi e componenti del sistema si fa più confusa e meno rilevante, trasformando Il sistema in un network attivamente partecipato che opera sia su scala locale che allargata.

In questo quadro, risulta necessario prendere atto che le nuove traiettorie tecnologiche non solo hanno reso utile nuova conoscenza, ma hanno anche modificato sostanzialmente che cosa si intenda per conoscenza, come questa venga scambiata, comunicata, implementata per tradurla in innovazione. Un’espressione abbastanza esemplare di questa evoluzione dell’”oggetto” conoscenza/innovazione che il sistema è chiamato a gestire, è proprio l’emergere di una idea più complessa e articolata di innovazione, maggiormente capace, in agricoltura e nella altre componenti della bioeconomia, di affrontare le nuove sfide.

Si tratta del concetto di system innovation, che incorpora/ibridizza nell’innovazione sia la sua dimensione più propriamente tecnologica, che spesso si limita alla relazione fornitore-produttore, sia la dimensione sociale ed ambientale che chiama in causa anche i consumatori, i cittadini, tutta la comunità agricola-rurale, le istituzioni, i settori di trasformazione e commercializzazione a valle, ecc.. E’ evidente che ogni “innovazione sistemica” così definita non può che prevedere l’interazione di tutti questi soggetti, la condivisone di informazione e conoscenza, processi continui e diffusi di apprendimento.

Considerando questa ipotesi di disegno reticolare, tuttavia, emergono anche alcuni rischi. Il principale è che l’idea astratta di system innovation o innovation network trovi il suo corrispettivo, in pratica, in un sistema altamente frammentato. Connesso a ciò, l’enfasi sul network potrebbe ridursi in realtà  ad un argomento retorico per smantellare i tradizionali pilastri del sistema “precedente”. Quindi, non un nuovo disegno per rilanciare il ruolo del sistema della conoscenza e dell’innovazione in agricoltura, bensì una “scusa” per ridurre gradualmente l’investimento e l’impegno (soprattutto pubblico ma anche privato) nel sistema.

Visti i rischi e le opportunità di questo processo evolutivo, viene ovvio chiedersi quale sia la politica più appropriata per assecondare, favorire e condizionare tale evoluzione.
Certamente, il caso della UE è qui di massimo interesse. Non solo perché riguarda l’Italia e quei paesi con economie e agricolture evolute, ma soprattutto perché appare esemplare rispetto alle difficoltà che si possono incontrare nell’impostare politiche coerenti ed efficaci in questo ambito.
In particolare, l’ambizione dell’UE di costruire un Sistema della Conoscenza e dell’Innovazione in Agricoltura (Scia) comunitario incontra due rilevanti problemi di coordinamento che tendono a rafforzarsi reciprocamente. Il primo è la solita difficoltà di ogni politica europea di armonizzare e, gradualmente, indirizzare, politiche nazionali (e talora regionali) profondamente eterogenee e specifiche. Il secondo problema riguarda, invece, il difficile coordinamento tra le due linee politiche che, nella UE, si occupano di questi aspetti, cioè le politiche settoriali (e in particolare la Politica Agricola Comunitaria) e la politica della ricerca.

La politica della ricerca, ispirata dall’Agenda di Lisbona che ha nella conoscenza e nell’innovazione tecnologica il suo principale punto di interesse, comincia ad incorporare già numerose delle suggestioni relative all’evoluzione recente. Tuttavia, ancorché con estensioni all’alta formazione e all’innovazione (il “triangolo della conoscenza” secondo la UE), questa impostazione del sistema rimane abbastanza top-down. Risulta, quindi, carente la fase bottom-up, che dovrebbe essere data, almeno per quanto concerne l’agricoltura, dalla Pac: Rispetto ad una scarsa considerazione del problema da parte della Pac nel periodo recente, di questa carenza cerca di tener conto, invece, la programmazione  e il disegno delle politiche comunitarie per il periodo 2014-2020.

Nel campo della politica della ricerca europea, va citata, in questo senso, l’iniziativa Innovation Union. nell’ambito della quale, tra altre numerose azioni contemplate, quella che rappresenta la maggiore novità è la possibilità di costituire European Innovation Partnerships (Eip) tematiche, proprio con lo scopo di far convergere politiche e risorse sull’obiettivo dell’innovazione.
In quest’ambito, una delle Eip più promettenti riguarda proprio l’agricoltura: si tratta di the European Innovation Partnership for agricultural productivity and sustainability (Eip-Agri) che appare come un effettivo passo in avanti nella direzione di un sistema della conoscenza e dell’innovazione in agricoltura coerente con l’evoluzione fin qui delineata, le nuove sfide e le nuove traiettorie tecnologiche.

Nell cosiddetto EIP-AGRI, infatti, viene chiaramente riconosciuto che le innovazioni agricole non sono solo quelle che aumentano la produttività convenzionalente intesa ma anche la perfomance riferita ad altre funzioni. In secondo luogo, e in relazione con il punto precedente, la Eip-Agri sembra in linea con una lettura più ampia del sistema, passando da una approccio strettamente settoriale (agricolo) alla bioeconomia, come chiaramente enfatizzato in molte delle aree individuate per le azioni innovative. In terzo luogo, la Eip-Agri presta particolare attenzione al fatto che il sistema di conoscenza e innovazione in agricoltura abbia una prevalente struttura reticolare, debolmente gerarchica e che coinvolge molti ed eterogenei soggetti da cui derivano anche alcuni dei suoi potenziali punti di debolezza: “the scientists do not know what the farmers want and the farmers do not know what the science do” (Matthews, 2011).

Infine, questa iniziativa chiaramente ambisce a gettare quel ponte fin qui mancante tra la politica di ricerca della UE e la Pac (in particolare il secondo pilastro) cioè, a coordinare e combinare le iniziative top-down con quelle bottom-up.
Al fine di rendere operativi questi potenziali punti di forza dell’Eip-Agri, la Commissione Europea ha proposto un apposito strumento, i cosiddetti Operational Groups (OG), che dovrebbero funzionare come veri e propri network innovativi che coinvolgono tutti gli stakeholder rilevanti e operare su tutti le possibili aree di interesse della bioeconomia.

Finanziata sia dal programma Horizon2020 che dal secondo pilastro della Pac, la finalità principale degli OG dovrà essere quella di contribuire ad incrementare la perfomance innovativa dell’agricoltura e della bioeconomia della UE riducendo la distanza esistente tra produzione scientifica (i ricercatori) e applicazione pratica (gli imprenditori agricoli).

Registrato presso il Tribunale Civile di Roma, Sezione per la Stampa e l'Informazione al n. 367/2008 del Registro della Stampa. Direttore Responsabile: Paolo Falcioni.
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