il Punto Coldiretti

La strategicità del cibo

di Sergio Marini

A volte i fatti aiutano a capire meglio ciò che dovrebbe essere ovvio.

Abbiamo dovuto aspettare una catastrofe nucleare per accorgerci che scienza e tecnologia non sempre sono portatrici di verità assolute, ovvero, la verità rimane tale sino a prova contraria e la storia ci dimostra che è quasi sempre questione di tempo, poi la prova contraria arriva.

Dovrebbe essere allora scontato che, quando le  applicazioni della scienza, ovvero le tecnologie, sono di portata tale che eventuali errori avrebbero ricadute globali ed incontrollabili su salute e ambiente, spetti alla gente e non agli scienziati dire l’ultima parola. Questi ultimi da parte loro dovrebbero saper fare un passo indietro, caricandosi di  quel pizzico di umiltà che non guasta. Insomma, per l’energia nucleare cosi come per gli Ogm è la gente che dovrebbe decidere e la precauzione serve, eccome se serve!

Allo stesso modo sembra scontato che l’alimentazione e l’agricoltura siano settori strategici per qualsiasi Paese. Senza cibo, infatti, non si prova malessere o disagio sociale, più semplicemente si muore di fame e si generano rivoluzioni.

Ma, anche qui, per ricordarsi della strategicità del cibo non sono bastati né  le rivolte del Nord Africa, accese dai rincari alimentari, tantomeno il paradosso di un paese super sviluppato come il Giappone  che si trova a fronteggiare una guerra primitiva, quella per l’acqua e il cibo divenuti radioattivi. È bastato, invece, lo spauracchio di un’industria francese che vuole comperarsi la “italianissima” Parmalat per ricordarci ciò che dovevamo già sapere.

La chiamo “italianissima” perché la Parmalat del nostro Paese rappresenta bene sia i vizi sia le virtù. Nata grazie al  genio Italiano, fallita nel modo più italiano possibile e ora risorta e piena di soldi grazie anche a un marchio di latte venduto per italiano, ma comperato per buona parte all’estero.

Sia chiaro, tutti siamo pronti a difendere l’italianità del nostro settore alimentare e, anche se con incolmabile ritardo, meno male che ci siamo accorti del suo valore strategico.

Deve essere però altrettanto chiaro che strategici per un Paese sono il cibo e l’agricoltura e, soltanto dopo, il marchio e la trasformazione. Come dire: senza agricoltura puoi avere tutti i marchi e le industrie che ti pare. Ma sul piatto non metti niente lo stesso!

Insomma, difendere l’italianità di Parmalat non può che significare  “latte e agricoltura italiani”, diversamente “l’operazione”  avrebbe  poco di strategico  se  non la tutela degli interessi dei soliti “ladri di identità”, ma questo non ci piacerebbe affatto né come agricoltori né come cittadini.

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