il Punto Coldiretti

La consapevolezza etica

Notevole eco nella stampa di categoria, ha avuto il Messaggio dell’ufficio Nazionale per i problemi sociale e del lavoro della Conferenza Episcopale Italiana, il Messaggio per la Giornata del Ringraziamento del prossimo 14 novembre. Parto da un passaggio di questo documento perché se da una parte ci gratifica per l’azione che la Coldiretti sta portando avanti, dall’altra, richiama la nostra responsabilità alla coerenza e alla consapevolezza dei principi etici che devono sottostare a tale azione. Per comprendere bene di cosa si tratta, mi permetto di riproporvi alcuni passaggi di un intervento che ho fatto in occasione di un’incontro dei Presidenti di qualche anno fa.

Il messaggio dice: “È fondamentale che anche il lavoro agricolo e rurale si caratterizzi per una rinnovata e chiara consapevolezza etica, all’altezza delle sfide sempre più complesse del tempo presente. In questa linea, sarà importante impegnarsi nell’educazione dei consumatori. Questo legame relazionale, da basare sulla fiducia reciproca, costituisce una grande risorsa: sempre più il consumatore è chiamato a interagire con il produttore, perché la qualità diventi prevalente rispetto alla quantità. Si tratta di diffondere comportamenti etici che facciano emergere la dimensione sociale dell’agricoltura, fondata su valori perenni, da sempre fecondi, quali (cita la Nota pastorale Frutto della terra e del lavoro dell’uomo, n.14) “la ricerca della qualità del cibo, l’accoglienza, la solidarietà, la condivisione della fatica nel lavoro”.

Qualsiasi discorso relativo all’agire umano, sia inteso individualmente che collettivamente, chiama in causa una costellazione di termini molto importanti quali: legge, coscienza, libertà e amore.
Termini come questi non sono di facile comprensione, non solo perché testimoniano di una molteplicità di interpretazioni che, da Aristotele a Spinoza fino a Levinas, non si lasciano ricondurre con facilità ad unità, ma soprattutto perché toccano esistenzialmente prima che tematicamente la dimensione più inafferrabile, inoggettivabile, coinvolgente e personale del soggetto umano nella sua irriducibile singolarità.

Nell’attuale stagione culturale, caratterizzata dalla crisi del moderno e dalla ricerca di un nuovo ethos – nuovi comportamenti pratici e teorici – che sappia far fronte alla duplice violenza dell’uomo nei confronti della natura (lo sfruttamento dissennato delle risorse) e nei confronti dei propri simili (la divisione e l’ingiustizia persistenti tra poveri e ricchi), può essere fecondo ripensare questi termini al/a luce del patrimonio biblico dove emerge una visione d’uomo che più di ogni altra può aiutare ad attraversare la crisi in atto ritrovando energie sopite, volontà di impegno e ragioni di speranza.

Ora la ragione principe sottesa all’ethos moderno, erede in questo dell’ethos della grecità, è la ragione secondo la quale qualsiasi agire – sia quello vegetale, animale, umano o divino – obbedisce ad una stessa logica di identità dove, come nel mito di Ulisse, il punto di partenza e il punto di arrivo si incontrano e si conciliano in una unità che ignora l’alterità e le differenze, ridotte a variazioni dello stesso tema. Questo ethos che E. Levinas definisce l’ethos del “Me Medesimo”, dell’“imperialismo dell’io” o della “miità” (sostantivizzazione del possessivo “mio”), se poteva funzionare in epoche e culture organiche, non poteva non esplodere ed entrare in crisi in una cultura come la moderna e postmoderna, dove, al posto del collettivo, si è affermato l’individuale dando luogo all’instabilità e alla conflittualità. La crisi attuale dell’ethos è il venire allo scoperto di questa fragilità e dell’impossibilità di modelli comuni e vincolanti, essendo l’io fuoriuscito dalla totalità e vivendosi come principio e fine.

Contro l’ethos dell’identità o del “Me Medesimo”, la Bibbia testimonia l’ethos incentrato intorno all’altro; la Bibbia, infatti, secondo la bella definizione di Levinas, “è la priorità dell’altro in rapporto a me” (1983).

A questa etica gli autori biblici in generale e i profeti in particolare danno il nome di giustizia, da intendere non secondo l’accezione greca di ordine immodificabile (non si dimentichi che nella Repubblica di Platone “è giusto” che ci siano gli schiavi) e neppure secondo le accezioni secondarie della giustizia distributiva commutativa e punitiva, ma secondo l’accezione ebraica dell’istanza di Bene Dio che chiama all’instaurazione del bene: il mondo felice e ordinato. Ciò vuol dire che la giustizia, per la Bibbia, prima che mondo felice e ordinato, è appello incondizionato rivolto al soggetto a crearlo. Per questo, come esprime lapidariamente Isaia: “la pace fiorisce dalla giustizia” (cf Is 32,17): che vuoi dire: la creazione, l’orizzonte del bene e della felicità, non è un dato di fatto ma un evento da instaurare attraverso la responsabilità personale.

Padre Renato Gaglianone

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