il Punto Coldiretti

Clima, la posta in gioco alla Conferenza di Copenaghen

Al termine di una delle estati più calde della storia della meteorologia italiana si accelerano i preparativi della prossima conferenza mondiale sul clima, che si svolgerà a Copenhagen dal 7 al 18 dicembre. L’evento, che costituisce la quindicesima Conferenza delle Parti (COP15) in seno alla Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (UNFCCC), rappresenta un momento importante del negoziato internazionale sul clima per sancire definitivamente la volontà internazionale di cooperare per la stabilizzazione della temperatura media globale, mediante la drastica riduzione delle emissioni di gas climalteranti.

A circa tre mesi dall’evento, che dovrebbe essere accompagnato dalla sottoscrizione di un trattato internazionale in grado di proseguire, con obiettivi sempre più stringenti, il percorso tracciato dal protocollo di Kyoto, i lavori preparatori lasciano già prefigurare segnali contrastanti sulla possibilità di raggiungere intese decisive. E’ senz’altro vero che, rispetto al 1997, anno della firma del protocollo di Kyoto, la consapevolezza generale sulla gravità del riscaldamento globale può dirsi decisamente aumentata (forse anche perché i dieci anni più caldi da quando si misurano le temperature sono tutti compresi nel periodo 1997-2008) e che, anche in termini di scenario politico, la possibilità di raggiungere un accordo sono oggi superiori anche a causa di eventi che hanno portato alcuni Paesi importanti a rivedere le loro posizioni.

In Australia e Usa oggi sono al governo leaders più sensibili sul fronte ambientale e ad anche in Giappone, a causa del risultato delle recenti elezioni, si prevede una inversione di tendenza in favore di un maggiore impegno sul clima. L’Europa, come si sa, ha approvato un target di riduzione delle emissioni climalteranti del 20% rispetto al 1990, ma attende proprio da Copenhagen un segnale positivo per innalzare ulteriormente i propri obiettivi fino al 30%.

Ma, malgrado ufficialmente abbia sempre dichiarato l’indisponibilità ad accettare limiti alle sue emissioni, la notizia più importante riguarda proprio l’ammorbidimento registrato negli ultimi mesi della posizione della Cina. Il gigante asiatico comincia a vedere nei cambiamenti climatici una minaccia per la propria economia e forse teme anche di perdere il treno della green economy, a cui il suo settore industriale è molto interessato.

Tuttavia, nonostante questi possano essere intese dei segnali positivi, alla fine, il successo della conferenza dipenderà dall’impegno finanziario che i Paesi industrializzati decideranno di sostenere per facilitare il trasferimento di tecnologie “pulite”. Si parla di cifre dell’ordine di 100 miliardi di dollari l’anno, cui l’Europa dovrebbe contribuire per un 20-30%, ma questa partita è tutta da giocare.

Ma veniamo ai contenuti che caratterizzeranno il negoziato: come abbiamo già detto, il presupposto fondamentale su cui sarà basato il nuovo trattato di Copenhagen è l’attuazione dell’art. 2 della UNFCCC, che mira alla stabilizzazione della concentrazione di gas ad effetto serra in atmosfera in modo da prevenire pericolose interferenze antropogeniche al sistema climatico.

L’attuazione di questo obiettivo deve essere effettuata nel rispetto di tre principi: il principio di precauzione (secondo il quale l’incertezza delle conoscenze scientifiche non può essere usata come scusa per posticipare un intervento quando esiste comunque il rischio di un danno irreversibile), il principio della responsabilità comune ma differenziata (per il quale tutti i Paesi della terra sono responsabili dei cambiamenti climatici generati dalle attività umane, ma tale responsabilità è differente fra i vari Paesi a seconda delle condizioni di sviluppo socio economico ed industriale) e quello di equità (l’equità è l’elemento portante nel riconoscimento della legittimità sia degli impegni assunti e delle decisioni adottate, che degli attori – cioè delle istituzioni nazionali ed internazionali – che assumono il ruolo di rappresentanza e rappresentatività dei popoli e delle loro istanze di benessere sociale ed economico).

La definizione di equità si articola, poi, in equità partecipativa (per l’assunzione delle decisioni), in equità operativa (per la suddivisione dei costi e dei benefici delle decisioni adottate per prevenire e per adattarsi ai cambiamenti climatici), in equità intergenerazionale (per tenere nel debito conto gli effetti delle decisioni sulle future generazioni).

Ma quali sono le implicazioni insite in un negoziato che punta alla stabilizzazione della temperatura media globale? Questo obiettivo è strettamente legato al livello di concentrazione atmosferica dei cosiddetti gas serra, che implica il raggiungimento di una condizione di equilibrio in cui le emissioni antropogeniche siano corrispondenti agli assorbimenti, situazione in cui le emissioni nette verrebbero considerate uguali a zero.

Nel 1990, assunto come anno di riferimento per l’attuazione di tutti gli atti di natura climatica (a cominciare dal protocollo di Kyoto), le emissioni globali di anidride carbonica (il principale gas serra) erano poco più del doppio degli assorbimenti globali da parte dell’ambiente terrestre e marino. Con questa premessa, il raggiungimento della condizione di equilibrio (sempre con riferimento all’anno 1990) implica due possibilità: un taglio di oltre il 50% delle emissioni antropogeniche globali oppure un incremento equivalente degli assorbimenti globali (detti carbon sinks) di almeno il 50%.

Definendo quest’ultima ipotesi non realistica (anche perché con il riscaldamento climatico le capacità di assorbimento globale tendono a diminuire), appare chiaro come l’obiettivo imperativo resti quello di fermare la crescita delle temperature mediante una drastica riduzione delle emissioni di origine umana. Tuttavia, un ruolo importantissimo in questa strategia è giocato dal fattore tempo.

Il periodo necessario per raggiungere la stabilizzazione delle temperature dipende, infatti, dalla velocità con cui si riesce ad incidere sul tasso di incremento delle emissioni nette globali. Il problema si può tradurre in una espressione del tipo “più siamo veloci ad intervenire, più tempo avremo a disposizione per finire il lavoro”.

Il dibattito internazionale è molto vivo su questo aspetto proprio perché ci si rende conto che la definizione dell’intervallo temporale in cui declinare gli impegni di riduzione delle emissioni (in sostanza, la scelta degli obiettivi al 2020 e al 2050 e l’individuazione dello stesso anno 1990 come riferimento di partenza) sia necessariamente da rapportare alla effettiva capacità e disponibilità dei sistemi umani di modificare le proprie modalità di sviluppo socio econonomico che interferiscono con il sistema clima.

Un’altra implicazione riguarda le modalità di attuazione degli accordi internazionali, che devono tener conto dei principi e delle priorità poste dalla UNFCCC. Si tratta delle strategie di attuazione che devono riguardare sia la mitigazione (prevenzione delle cause antropogeniche dei cambiamenti del clima), sia l’adattamento (prevenzione delle conseguenze negative e dei danni causati dai cambiamenti climatici).

Poi c’è il problema delle priorità (i Paesi industrializzati, che sono anche i maggiori responsabili dell’inquinamento del pianeta, devono assumere un ruolo guida ed attuare per primi impegni ed obblighi, in modo che i Paesi in via di sviluppo possano successivamente fare la loro parte); della scelta della tipologia degli impegni (che non riguardano le sole azioni di protezione del clima ma devono comprendere tutta una serie di impegni collaterali ed integrativi che aiutino lo sviluppo dei Paesi più poveri in modo sostenibile) e delle azioni, che devono riguardare in primis la riduzione delle emissioni antropogeniche dei gas serra, l’aumento degli assorbitori naturali di tali gas e la diminuzione della vulnerabilità territoriale e socio economica ai cambiamenti del clima, ma comprendendo anche interventi collaterali ed integrativi che spaziano dal settore economico (con la creazione di opportuni fondi e di opportune forme di cooperazione internazionale), al settore tecnologico (mediante il trasferimento di nuove tecnologie, di know-how e di capacità tecnico-scientifiche), al settore scientifico (la ricerca sui cambiamenti del clima, le osservazioni climatiche), fino ad arrivare al settore della comunicazione e della partecipazione dei cittadini (formazione, informazione e consapevolezza del pubblico).

A che punto siamo? Insomma, rispetto ai segnali positivi dal punto di vista politico di cui abbiamo parlato, la strada per la firma del nuovo Trattato di Copenhagen sembra ancora ricca di difficoltà. Per capirlo basta dare un occhiata alla media delle riduzioni annunciate finora dai paesi ricchi per il 2020, (sempre avendo come riferimento il 1990). Rispetto a quel 40% che, secondo gli scienziati, sarebbe necessario raggiungere per mantenere il surriscaldamento del pianeta entro i 2°C (obiettivo minimo solo recentemente condiviso), ad oggi la media per i paesi industrializzati (OECD) non  arriva che al 14% (dato su cui incide molto, tra l’altro, il rilevante peso di riduzione del 20% della UE).

Rispetto all’importanza del fattore tempo sopra ricordata, ecco allora che le premesse per un successo della Conferenza di Copenhagen non appaiono così rosee. E l’agricoltura? Proprio in relazione alle aspettative di un mondo agricolo così coinvolto dalla questione climatica, risulta evidente come la prossima Conferenza rappresenti anche un momento importante per sviluppare una agricoltura sostenibile a livello mondiale che sia in grado di operare in linea con il bisogno di sufficienza alimentare.

Questo obiettivo sarà raggiunto anche e soprattutto se si punterà a sostenere in modo consistente gli sforzi di adattamento del settore così come il suo ruolo nella mitigazione. Anche per il settore agricolo, Copenhagen è una occasione imperdibile per giungere alla definizione di specifiche politiche in grado di modificare una situazione di empasse paradossale, in cui, nonostante il ruolo del settore primario agli effetti dei benefici climatici continui ad essere continuamente citato in tutti i consessi politici e scientifici, a tutt’oggi, non si è ancora riusciti a concretizzare nessuna soluzione per attribuire a questa funzione un valore economico, sulla base della sua utilità sociale.

Registrato presso il Tribunale Civile di Roma, Sezione per la Stampa e l'Informazione al n. 367/2008 del Registro della Stampa. Direttore Responsabile: Paolo Falcioni.
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