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Conferenza di Doha, risultati sotto le aspettative ma Kyoto “sopravvive”

Dopo due settimane di negoziati, si è conclusa sabato 8 dicembre la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Doha (Cop18). Tra gli obiettivi del summit, c’era quello di dare attuazione a quanto stabilito a Durban nel 2011 per migliorare le azioni globali per il clima, puntando al raggiungimento di un accordo globale, caratterizzato da impegni vincolanti per tutti i paesi. La scadenza per la sottoscrizione dell’accordo a Durban era stata fissata per il 2015, con un inizio della fase operativa previsto per il 2020.

I risultati della Conferenza di Doha, però, non si sono dimostrati all’altezza delle aspettative e i negoziati sull’accordo non possono certo considerarsi conclusi. Ma vediamo di ricostruire le premesse del negoziato. Il problema principale in ambito climatico è, infatti, quello del mantenimento del surriscaldamento del pianeta entro i 2°C rispetto all’epoca pre-industriale (l’anno di riferimento è il 1750). Il raggiungimento di questo obiettivo comporta la stabilizzazione delle concentrazioni atmosferiche di gas serra al di sotto di 450 ppm e un’inversione dell’attuale andamento crescente delle emissioni globali, per riportarle, entro il 2050, e, comunque, prima del 2100, al di sotto della soglia dei 24 miliardi di tonnellate di anidride carbonica per anno (rispetto agli attuali 34).

La gravità della situazione attuale è stata evidenziata anche dall’ultimo bollettino della World Meteorological Organization che ha messo in risalto come la concentrazione atmosferica di anidride carbonica, il principale gas ad effetto serra, nel 2011 abbia raggiunto il valore record di 391 ppm (parti per milione), cioè il 40% in più rispetto all’epoca preindustriale. Il ritmo di crescita delle emissioni in questi ultimi dieci anni è stato pari a 2 ppm per anno, a conferma del fatto che, all’effetto serra naturale, si è aggiunto un “contributo” negativo, legato alle attività umane (+30% nel periodo tra il 1990 e il 2011).

Secondo un recente rapporto dell’Unep (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente), il gap esistente tra gli impegni di riduzione assunti sino ad ora dai diversi paesi e la riduzione di emissioni necessaria per contenere il riscaldamento del pianeta sotto i 2°C (soglia di irreversibilità degli effetti negativi) al 2020 sarebbe di 8-13 Gt di CO2, mentre il surriscaldamento stimato, sulla base degli attuali impegni, varierebbe tra i 3.5°C e i 6°C.

E’ questo, dunque, lo scenario che ha accompagnato, sin dai lavori preparatori, la 18° sessione negoziale della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Eppure, nonostante il trend negativo in termini di contenimento delle emissioni globali, a Doha non si è riusciti ancora a superare gli ostacoli negoziali che bloccano la ratifica del nuovo accordo globale, anche se va valutato positivamente il risultato di essere riusciti ad assicurare una seconda stagione al Protocollo di Kyoto (la prima fase scade il 31 dicembre 2012), che però come sappiamo, vede tra i firmatari soltanto alcuni paesi (tra cui l’Unione Europea) che, insieme, rappresentano solo il 15% delle emissioni globali.

Il ritardo dei negoziati sull’accordo globale, infatti, va attribuito, in modo abbastanza consequenziale, alla serie di veti incrociati sugli impegni di riduzione delle emissioni che stanno caratterizzando gli approcci diplomatici di quasi tutti i Paesi maggiori emettitori a livello mondiale.

A partire dall’Unione Europea, che, pur manifestato la volontà di proseguire con il protocollo di Kyoto, dichiara che non intende assumere impegni di riduzione delle emissioni più ambiziosi rispetto a quelli già presi (-20% entro il 2020, rispetto al 1990).

Da parte di Usa, Canada, Russia e Giappone, infatti, si conferma la non volontà a sottoscrivere il protocollo di Kyoto, pur dichiarando una disponibilità a prendere in considerazione la firma di un trattato internazionale di riduzione delle emissioni, a patto che questo avvenga successivamente ad impegni da parte di Cina, India, Brasile e Sud Africa.

A questo atteggiamento “attendista” risponde la Cina che dichiara di essere disponibile ad impegnarsi nell’ambito di un trattato internazionale che presenti obblighi e scadenze solo dopo che anche gli Stati Uniti avranno fatto altrettanto. Appare chiaro che, con queste premesse, il mancato raggiungimento, in tempi così brevi rispetto a Durban, dell’atteso accordo vincolante globale poteva essere, in qualche modo, anche prevedibile.
 
Tuttavia, durante la conferenza di Doha, qualche passo avanti si è fatto (anche se resta veramente difficile stabilire se il bicchiere è da considerarsi mezzo pieno o mezzo vuoto), primo tra tutti l’aver salvato (speriamo non “provvisoriamente”) il protocollo di Kyoto in attesa che maturino le condizioni per un impegno più consistente e condiviso. Ecco, comunque, riassunti in estrema sintesi, i risultati conclusivi delle conferenza di Doha.

Il Protoccolo di Kyoto -Il Protocollo di Kyoto, l’unico accordo esistente e vincolante in base al quale i paesi sviluppati si impegnano a riduzione dei gas a effetto serra, è stato modificato in modo che continuerà con una nuova fase a partire dal 1° gennaio 2013. I governi hanno deciso che la durata del secondo periodo d’impegno sarà di 8 anni (la nuova scadenza, quindi, è il 31 dicembre 2020). I requisiti legali che permetteranno un buon proseguimento del protocollo sono stati concordati. Le norme contabili significative del protocollo sono state conservate. I paesi che stanno assumendo i nuovi impegni nel quadro del Protocollo di Kyoto hanno accettato di rivedere i propri obiettivi di riduzione delle emissioni al più tardi entro il 2014, al fine di aumentare i loro rispettivi livelli di contenimento delle emissioni. I meccanismi di mercato del protocollo di Kyoto (CDM, JI e International Emission Trading) possono continuare, a partire dal 2013. L’accesso ai meccanismi sarà ininterrotto per tutti i paesi industrializzati che hanno accettato gli obiettivi per il secondo periodo di impegno. La Joint Implementation* continuerà ad operare, con le norme tecniche concordate che consentono l’emissione di crediti, una volta che gli obiettivi di riduzione di un paese ospitante siano stati formalmente stabiliti. Australia, Ue, Giappone, Liechtenstein, Principato di Monaco e Svizzera hanno dichiarato che non verranno trasferite le eccedenze di crediti di scambio delle emissioni (importi assegnati) nel secondo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto.

Tempistica per l’accordo globale sui cambiamenti climatici – E’ stata messa a punto una tempistica per l’accordo globale sui cambiamenti climatici (che a Durban si è stabilito di predisporre per ratifica entro il 2015) e un’ambizione crescente prima del 2020. I governi hanno concordato di lavorare sollecitamente per un accordo universale di tutti i paesi sui cambiamenti climatici  a partire dal 2020, da adottare entro il 2015 e per trovare il modo di potenziare gli sforzi prima del 2020 oltre gli impegni esistenti per ridurre le emissioni in modo che il mondo possa rimanere al di sotto del massimo concordato di 2 gradi Celsius di aumento della temperatura. Un numero significativo di incontri e workshop sarà tenuto nel 2013 per preparare il nuovo accordo ed esplorare ulteriori modalità per aumentare l’ambizione. I governi hanno deciso di presentare alla Segreteria della Convenzione delle Nazioni Unite, entro il 1 ° marzo 2013, le informazioni, opinioni e proposte di azioni, iniziative e opzioni per migliorare l’ambizione. Elementi di un testo negoziale devono essere disponibili entro la fine del 2014, in modo che un progetto di testo negoziale sia disponibile prima del maggio 2015. A Doha, il Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha annunciato che convocherà i leader mondiali nel 2014 per mobilitare la volontà politica di contribuire a soddisfare la scadenza del 2015.

Completamento delle nuove strutture di trasferimento tecnologico – A Doha i governi hanno portato avanti significativamente la realizzazione delle nuove strutture per trasferire tecnologie e finanziamenti ai paesi in via di sviluppo e andare verso la piena attuazione di tali strutture e di tale supporto. In particolare: hanno approvato la scelta della Repubblica di Corea come la location del Green Fund per il clima e il piano di lavoro del comitato permanente per il finanziamento. Il Fondo dovrebbe iniziare il suo lavoro a Sondgo nella seconda metà del 2013, il che significa che potrà avviare le attività nel 2014; hanno confermato un consorzio guidato da Unep come sede del Climate Technology Center (Ctc), per un periodo iniziale di cinque anni. Il Ctc, con l’associato network, è il braccio operativo del meccanismo tecnologico dell’UNFCCC (Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici). I governi hanno inoltre concordato la costituzione dell’advisory board del Ctc.

Finanziamenti a lungo termine – I paesi sviluppati hanno ribadito il loro impegno a mantenere le promesse di continuare il sostegno a lungo termine per le nazioni in via di sviluppo, con il fine di mobilitare 100 miliardi di dollari, sia per l’adattamento che per la mitigazione entro il 2020. L’accordo incoraggia inoltre i paesi sviluppati ad aumentare gli sforzi per fornire finanziamenti tra il 2013-15, almeno al livello medio annuo con cui hanno fornito i fondi durante il finanziamento fast-start del periodo 2010-2012. Questo per assicurarsi che non ci sia soluzione di continuità nel  sostegno finanziario e che gli sforzi siano adeguatamente accresciuti. I governi sosterranno nel corso del 2013 un programma di lavoro sui finanziamenti a lungo termine  per contribuire agli sforzi in corso al fine di potenziare la mobilitazione dei finanziamenti per il clima e poi relazionare alla prossima Conferenza delle parti (Cop 19, che si terrà a Varsavia il prossimo anno) sui percorsi per raggiungere tale obiettivo. Germania, Regno Unito, Francia, Danimarca, Svezia e la Commissione europea hanno annunciato impegni finanziari concreti per il periodo fino al 2015, per un totale di circa 6 miliardi di dollari.

* Il meccanismo di Joint Implementation è uno dei meccanismi flessibili previsti dal Protocollo di Kyoto che permette alle imprese dei paesi con vincoli di emissione (annesso I – Paesi industrializzati o ad economia in transizione) di realizzare progetti che mirano alla riduzione delle emissioni in altri paesi con vincoli di emissione. I progetti JI sono "operazioni a somma zero" in quanto le emissioni totali permesse nei due paesi rimangono le stesse.

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