il Punto Coldiretti

Copenhagen delude le attese, l’accordo c’è ma non vincola nessuno

E’ rimasto deluso chi si aspettava da Copenhagen una unità di intenti nella lotta ai cambiamenti climatici. Come era già evidente agli occhi di chi ha seguito i lavori preparatori della Conferenza danese promossa dall’Onu, i grandi della Terra non sono riusciti a superare tutte le diffidenze e le incertezze che avrebbero dovuto portare ad un accordo globale sugli obiettivi di riduzione delle emissioni in grado di contenere l’innalzamento della temperatura atmosferica al di sotto dei 2 gradi entro il 2020. Fino all’ultimo, infatti, si è sperato di varare un nuovo trattato, ma la condizione necessaria era una approvazione all’unanimità dei lavori e delle proposte presentate, secondo la regola del consenso della United Nations Framework Convention on Climate Change (Unfccc).

Si è assistito, invece, nella sessione plenaria conclusiva, alla presentazione di un documento politico oggetto di accese critiche, in quanto elaborato senza il coinvolgimento di tutti i Paesi partecipanti. Il risultato è stato la mancanza del consenso necessario all’approvazione del trattato (sette i Paesi contrari).

Si segnala che le opposizioni principali al documento conclusivo – che è stato elaborato essenzialmente secondo le indicazioni di Usa e Paesi Basic (Brasile, Sud Africa, India e Cina) – sono state mosse da Tuvalu e da altri Stati delle piccole isole oceaniche, oltre che da Nicaragua, Costa Rica e altre nazioni sudamericane.

Con il fallimento del consenso sull’accordo politico, né le bozze di trattato, né altri documenti che necessitano di supporto politico possono essere approvati e, a fronte di questa situazione, l’unica soluzione individuata è stata quella di attuare un escamotage per aggirare la situazione di collasso ed evitare ripercussioni negative sull’immagine della presidenza danese e delle Nazioni Unite. Si tratta di una decisione “che prende nota” (“takes note”) dell’accordo di Copenhagen. Quest’ultimo deve essere quindi considerato come una sorta di dichiarazione politica allegata alla decisione.

Tale procedura costituisce una novità nell’ambito del sistema negoziale dell’ Unfccc e lascia aperti molti dubbi soprattutto dal punto di vista giuridico (ai sensi della decisione 55/488 dell’assemblea generale, la formulazione “prendere nota” non costituisce approvazione ma solo “presa d’atto”). Gli impegni dell’accordo sono quindi fuori dalla Convenzione e saranno validi solo per chi sceglie di aderirvi, il che apre vasti problemi procedurali.

Il risultato della conferenza di Copenaghen va, dunque, considerato come un accordo politico non adottato dalla Cop, ma appoggiato dalla maggioranza dei Paesi (soprattutto da quelli politicamente ed economicamente più potenti). E’ evidente, quindi, che sarà necessario lavorare molto per risolvere le questioni in sospeso e arrivare alla firma di veri e propri trattati nel prossimo futuro. I contenuti del documento approvato nella forma citata, i quali, comunque, costituiscono il punto di partenza dei negoziati futuri, riguardano, in sintesi, i seguenti obiettivi: 2c° di massimo surriscaldamento climatico al 2020; riduzione delle emissioni al 2050 (parametro che può essere tradotto in un limite legalmente vincolante, ma per farlo si devono specificare anche gli strumenti o il percorso per raggiungerlo; in assenza di queste indicazioni, nessuno è tenuto a rispettare questo vincolo, in quanto nessuno può realizzarlo da solo, trattandosi del risultato di una azione collettiva globale); flusso dei finanziamenti (anche qui si tratta di impegni condizionati da altri processi).

Insomma, rispetto alla necessità di arrivare alla sottoscrizione di un nuovo trattato contenente impegni precisi, vincolanti e condivisi, nonostante le grandi attese, alimentate anche dalle dichiarazioni fatte già due anni fa in occasione della Conferenza di Bali, oltre che dai segnali positivi provenienti dai leaders mondiali più importanti, a ben vedere, sul piatto, a parte le parole, è rimasto ben poco.

Al termine della Conferenza di Copenhagen, infatti, non si è riusciti ad arrivare, come si sperava, ad un accordo vincolante, né politicamente né legalmente: non c’è l’impegno a raggiungerlo entro il 2010; non ci sono obiettivi di riduzione al 2020 (a parte quelli volontari); non c’è un impegno di riduzione al 2050 per i Paesi sviluppati (vista l’opposizione della Cina); non c’è un accordo sulle foreste (il cosiddetto Redd); non sono stati messi a punto gli attesi sistemi di controllo degli impegni di riduzione nazionali dei Paesi in via di sviluppo (il controllo è stato imposto dagli Usa solo per quelli realizzati con l’assistenza internazionale). Spicca, tra laltro, che, nel testo dell’accordo, il Protocollo di Kyoto sia menzionato solo due volte (quasi a sancirne la morte politica).

A tener accesa la speranza su un esito positivo del negoziato mondiale sul clima restano solo numerose enunciazioni e l’unico impegno finanziario concreto, il Copenhagen Green Climate Fund, il cui obiettivo è quello di aiutare i Paesi in via di sviluppo ad adottare misure di mitigazione e adattamento. L’accordo su questi fondi prevede uno stanziamento per il periodo 2010-2012 pari a 30 miliardi di dollari e l’obiettivo di giungere a 100 miliardi di dollari entro il 2020. Tuttavia, al di là delle dichiarazioni più o meno di parte, risulta evidente che, con le politiche attuali, non sarà materialmente possibile raggiungere l’obiettivo dichiarato di mantenere il riscaldamento atmosferico entro i due gradi al 2020.

La responsabilità di questa impasse deve essere ripartita tra tutti i partecipanti al negoziato, ma non possono non saltare all’occhio le particolari responsabilità della Cina (che continua a rivendicare il suo “diritto allo sviluppo”) e degli Stati Uniti (dove gli “slanci” della sua leadership sono oggetto di forti resistenze interne, a testimonianza del grande peso politico in Usa delle lobby del carbone e degli idrocarburi), ma non meno responsabili possono essere considerati gli esitanti atteggiamenti di India, Russia, Canada, di gran parte del mondo industriale e anche di una fetta di ambientalisti, troppo spesso propensi ad incensare i risultati ottenuti, anche quando questi sono scarsi.

Forse l’unico segnale positivo lo si deve proprio all’azione del gruppo di battaglieri Paesi in via di sviluppo che hanno osteggiato l’adozione della proposta di accordo, avendola ritenuta troppo blanda e fin troppo calata dall’alto. Detto ciò, nei mesi futuri i negoziati continueranno su i due binari già delineati durante le fasi preparatorie della conferenza danese, quello del Protocollo di Kyoto e quello delle azioni di cooperazione a lungo termine (Lca) dove, si ricorda, nell’ultima versione del testo, veniva fatta specifica menzione del ruolo dell’agricoltura nella sicurezza dell’approvvigionamento alimentare.

A tale riguardo, si segnala che, a latere dei negoziati, Australia, Canada, Cile, Danimarca, Francia, Germania, Ghana, Irlanda, Giappone, Malesia, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Svezia, Svizzera, Regno Unito, Usa, Uruguay e Vietnam, hanno siglato un accordo denominato “Joint Ministerial Statement” per la creazione di una alleanza nel settore della ricerca sulle emissioni di gas effetto serra di origine agricola. Nel riconoscere il legame tra agricoltura e sicurezza dell’approvvigionamento alimentare, gli Stati firmatari ritengono necessario compiere passi in avanti nella ricerca di sistemi che permettano di aumentare il potenziale di sequestro di carbonio dei suoli, in modo da contribuire attivamente alla strategia di mitigazione.

In conclusione, possiamo dire che l’”Accordo di Copenaghen” appare complessivamente debole e giuridicamente incerto. “Sono cosciente – ha ammesso il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon – che non è quel che tutti speravamo. Ma è un inizio, ora lavoreremo per renderlo legalmente vincolante nel 2010”. Non resta, allora, che attendere i risultati delle future riunioni dei gruppi di lavoro che si terranno a Bonn e il prossimo incontro della Convenzione (COP16), che si terrà tra un anno in Messico.

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