il Punto Coldiretti

Idrocarburi ed agricoltura: una convivenza possibile?

Presentato a Roma uno studio realizzato da RIE per Assomineraria dal titolo “La coesistenza tra idrocarburi e territorio in Italia”. Nell’ambito dell’evento di presentazione del volume è stata indetta una tavola rotonda, che ha visto anche la partecipazione di Coldiretti, come occasione di confronto tra diversi settori – che spesso entrano in conflitto a livello territoriale – sul tema delle possibilità di convivenza tra idrocarburi, agricoltura, turismo e pesca.

Secondo lo Studio di Assomineraria, infatti, non esisterebbero comprovate correlazioni negative tra attività mineraria e i settori dell’agricoltura, della pesca e del turismo e nonostante una diffidenza generalizzata verso il settore dell’oil&gas, queste attività possono coesistere con successo in uno stesso territorio.

Nell’ambito del suo intervento Coldiretti non ha escluso a priori la possibilità di convivenza tra attività estrattive e agricoltura/pesca/turismo, ma ha ritenuto di dover sottolineare la necessità di procedere attraverso l’impiego di tecnologie adeguate e soprattutto pianificando l’inserimento delle attività esplorative ed estrattive nel rispetto degli investimenti preesistenti e del territorio come risorsa prioritaria per le comunità residenti.
Il tema, infatti, è quello più generale del rapporto tra energia e territorio e recentemente si è avuto modo di approfondirlo con lo sviluppo delle rinnovabili.

Per il settore agricolo non si tratta, dunque, di una lotta pregiudiziale “alle trivelle”, “all’eolico” o “al fotovoltaico” (a terra, prima, e ora al solare termodinamico), ma, semmai, di una richiesta di garanzia di tutela del territorio che, in assenza dell’applicazione di strumenti di salvaguardia e di una visione di sviluppo in grado di tener conto degli interessi di chi in certe aree vive e lavora, rischia di perdere irreversibilmente le sue valenze fondamentali.

Ci si riferisce a quei valori che in molte altre aree del Paese, fanno riferimento alla storia, alla cultura, all’arte, alla tradizione, alla presenza di produzioni agroalimentari tipiche e di pregio, così come alla biodiversità, all’ambiente, al paesaggio.
L’avvento delle fonti rinnovabili, infatti, ha evidenziato, ancora una volta, come la pianificazione territoriale sia fondamentale per gestire il processo di integrazione territoriale degli interventi energetici e come una assenza della politica e delle istituzioni, in questo campo, possa comportare gravi distorsioni e danni.

La stessa considerazione può essere estesa al rapporto con le attività estrattive (specie con quelle di nuova introduzione), che dovrebbero essere gestite con una logica diversa rispetto al passato, perché il rapporto tra comunità e territorio, nel tempo, ha subito profonde modificazioni.

Tornando ai rischi della mancanza di una pianificazione territoriale integrata (e richiamando, in questo senso, la responsabilità della politica, nell’ambito della mancata scelta di modelli di sviluppo effettivamente ritagliati sulle prerogative territoriali), si pensi, ad esempio, a come il ruolo delle norme abbia subito uno stravolgimento quando alcuni strumenti economici di incentivo, destinati allo sviluppo delle fonti rinnovabili, si sono trasformati in un incoraggiamento per  fenomeni speculativi su ampia scala.

In molti casi, quindi, non si tratta della mancanza di norme, ma, bensì, della loro corretta attuazione, in funzione di un modello di sviluppo che, almeno in certe aree, dovrebbe essere frutto di una riflessione a monte, evitando che un intervento sul territorio, seppure di per se utile (come quelli orientati alla produzione di energia rinnovabile o all’estrazione di idrocarburi, di innegabile valore strategico per il nostro Paese) possa compromettere o incidere negativamente su scelte ed investimenti già effettuati dalle comunità residenti.

Ecco che, piuttosto che lanciarsi in opposizioni ideologiche all’insediamento delle attività energetiche, l’agricoltura chiede la definizione e il rispetto di necessari criteri di bilanciamento, o meglio, chiede una tutela “politica”, da porre a monte dei rapporti con gli altri settori, attraverso la pianificazione, la programmazione, l’assunzione di responsabilità, l’applicazione del principio di sviluppo sostenibile e di “non regressione ambientale” e in funzione di valutazioni d’impatto/opportunità effettuate sul lungo periodo e sulla base di elementi che non possono essere solo di natura economica.

L’approccio dell’agricoltura e delle comunità residenti con il territorio oggi non può più essere gestito applicando la logica delle compensazioni economiche perché queste, da sole, non sono sufficienti a giustificare la nascita di un impianto o di un intervento, se parallelamente non si dispone anche delle necessarie garanzie in termini di impatto.
Questo perché è ormai opinione comune che il territorio non possa considerarsi come un “contenitore spartibile” tra le diverse intraprese economiche, ma, piuttosto, costituisca la principale leva di sviluppo sia per le comunità che da esso traggono sostentamento diretto, sia per il Paese.

Per questo le scelte strategiche sulla destinazione produttiva di un territorio e sulla gestione delle risorse da esso contenute e rappresentate, devono coinvolgere in primis le comunità residenti, preservando tutte le opportunità anche per le generazioni future
Se oggi, infatti, l’agricoltura è divenuto uno dei settore più attenti alla tutela del territorio, questo è avvenuto perché gli imprenditori agricoli hanno capito che da questo dipende la loro stessa sopravvivenza.

La competitività del settore agroalimentare italiano, infatti, oggi è indissolubilmente legata ad una “credibilità”, da parte dei consumatori, in termini di reale appartenenza delle produzioni agroalimentari ad un territorio sano, bello, salubre e ricco di valori tradizionali (e lo stesso vale per il turismo). Questo approccio, infatti, appare ormai necessario per difendersi dalla crescente competizione sul mercato da parte di produzioni anonime ma caratterizzate da costi di produzione inferiori.

Va detto, purtroppo, che nella difesa di questo valore identitario non sempre la politica si è dimostrata un interlocutore attento (vedi le lotte per la difesa dell’origine, per l’etichettatura obbligatoria, nonché la vicenda degli ogm) e questo vale anche in campo energetico, evidenziandosi sia attraverso carenze pianificatorie, sia nel mancato uso degli strumenti esistenti (molte regioni hanno applicato solo parzialmente le linee guida), comprendendo anche le modalità con cui i diversi Ministeri competenti gestiscono (tra l’altro confrontandosi poco tra di loro) la complessa materia agroenergetica.

Spesso, infatti, a prevalere è la logica del “cerchiobottismo” e con l’acuirsi della crisi economica, si assiste, da un lato, ad una crescente attenzione nei confronti degli aspetti occupazionali, ma dall’altro lato, una diminuzione di quella legata agli aspetti ambientali, in una sorta di conflitto che vede cambiare continuamente il peso dei diversi interessi in gioco, in un orizzonte temporale strategico di durata sempre più breve e sempre più orientato alla gestione delle emergenze.
In questo senso, è proprio la mancanza di una visione di insieme che contribuisce ad inasprire il conflitto tra i diversi settori, specie nell’ambito di una gestione del territorio funzionale a modelli di sviluppo che, va detto, non sempre sono convergenti.
In assenza di scelte politiche, infatti, si finisce per dichiarare il territorio “terra di nessuno”, offrendo campo libero al consumo di suolo, ai dissesti, alla speculazione e in alcuni casi anche all’infiltrazione criminale.

E’ un fatto, inoltre, che nel settore energetico, la diffusione di grandi impianti sul territorio, oltre a caratterizzarsi spesso con un elevato impatto ambientale e con un grande consumo di suolo agricolo e di risorse, si è dimostrata particolarmente suscettibile ad essere gestita senza prevedere effettivi ritorni per l’economia locale, ma questo si è verificato principalmente a causa di un sistema incentivante sbilanciato e soprattutto in contesti caratterizzati da carenze nell’attuazione degli strumenti di pianificazione territoriale ed energetica, specialmente a livello regionale.

Anche nel caso specifico delle trivellazioni, allora, dovrebbero assumere particolare rilievo le modalità con cui dovrebbe essere effettuata la valutazione dell’effettivo livello di integrazione territoriale degli impianti, visto che in molte aree gli effetti destabilizzanti sulle componenti ambientali e sulle attività agricole possono rivelarsi troppo pesanti per giustificarne la realizzazione.

Ma, a prescindere dagli aspetti tecnici, che comunque dovrebbero essere affrontati con criteri oggettivi, il problema resta quello della coerenza. La salvaguardia del territorio, infatti, è parte integrante di tutti i modelli di sviluppo, ma lo è in maniera particolare laddove si “decide” di voler puntare veramente sul made in Italy agroalimentare.
In questi contesti, in particolare, non si può assolutamente prescindere dalla tutela e dalla valorizzazione di quegli elementi, sia materiali che immateriali, che identificano le produzioni agricole e su cui l’agricoltura italiana sta investendo tutta la sua capacità di sviluppare valore aggiunto, innovazione ed eccellenza.
 
Ecco, allora, che i casi citati nello studio di Assomineraria (relativamente alle esperienze in atto in Val d’Agri, Ragusa e Parma) introducono la necessità di prevedere una differenziazione tra la gestione di una “convivenza storica” tra attività estrattiva ed agricoltura e gli impatti di eventuali nuove autorizzazioni.

Questo perché, negli ultimi anni, il legame tra attività economiche e territorio è cambiato e le innumerevoli specificità che caratterizzano i territori italiani fanno si che le situazioni siano sempre da valutare caso per caso, senza pregiudizi ideologici e contrastando il fenomeno “nimby” attraverso una corretta e trasparente informazione, ma anche garantendo l’osservanza della non regressività della qualità ambientale e dei criteri che definiscono “lo sviluppo sostenibile”.

Un approccio collaborativo e sinergico tra attività estrattive ed agricoltura, quindi, è possibile ed auspicabile solo quando, a monte, si riesca ad avere la certezza che l’attività estrattiva non comporti rischi per l’integrità territoriale.

Tuttavia, più difficile, se non impossibile, resta la convivenza in contesti in cui il settore agricolo ha investito nell’identificazione dei propri prodotti e servizi nell’ambito di un territorio che, nell’immaginario collettivo, ci si aspetta conservi connotazioni ambientali e paesaggistiche spesso non conciliabili con l’introduzione dell’attività estrattiva, così come di qualsiasi attività industriale ed energetica ad alto impatto.

E’ inoltre chiaro che, specie in un contesto vulnerabile e ricco di risorse “non rinnovabili” (rispetto ad un eccessivo sfruttamento, impoverimento o stravolgimento degli equilibri) quale quello che caratterizza il nostro Paese quasi per la sua interezza, anche la stessa idea di sviluppo industriale andrebbe rivista, abbandonando il ricorso esclusivo all’economia di scala e passando ad un recupero di competitività, sia a livello interno che internazionale, basato sull’adesione ai veri valori del made in Italy, puntando a tradurre in opportunità la grande capacità attrattiva ed evocativa che tutto il mondo invidia al territorio italiano, che, va ribadito, è una risorsa per tutti, ma in modo particolare, per le comunità residenti.

Registrato presso il Tribunale Civile di Roma, Sezione per la Stampa e l'Informazione al n. 367/2008 del Registro della Stampa. Direttore Responsabile: Paolo Falcioni.
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