il Punto Coldiretti

Il Contributo di Coldiretti alla Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici

L’attuazione di azioni/misure di adattamento climatico può necessitare di importanti ristrutturazioni in alcuni settori socio-economici particolarmente dipendenti dalle condizioni meteo-climatiche o in comparti particolarmente esposti ai cambiamenti climatici. Per questo motivo il Ministero dell’Ambiente ha ritenuto utile avviare un dialogo strutturato con le parti interessate e con la società civile per individuare le necessità specifiche e le barriere, al fine di mettere a punto una strategia nazionale condivisa e partecipata. A tale scopo il Ministero ha avviato una consultazione pubblica, conclusasi lo scorso 20 gennaio, relativamente ai contenuti di documento di indirizzo dal titolo: “Elementi per una strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici”.

Anche Coldiretti ha partecipato al processo di condivisione inviando un contributo contenente alcune riflessioni e proposte, con specifico riguardo al ruolo del settore agricolo, di cui si ritiene utile riportare una sintesi. Come noto, il settore agricolo è particolarmente vulnerabile agli effetti negativi dei cambiamenti climatici. Questa vulnerabilità, insieme alle potenzialità positive in termini di mitigazione (produzione di fonti energetiche rinnovabili e sequestro del carbonio nel suolo e nelle piante), conferisce al settore una “centralità” nell’ambito delle strategie climatiche. Da sempre, infatti, l’efficienza del modello di produzione agricola, pur dipendendo in misura consistente dalle capacità di gestione e di pianificazione dell’imprenditore agricolo, risulta fortemente legata agli elementi caratterizzanti il luogo di produzione, quali la fertilità del suolo e il clima.

Oggi questa efficienza è sotto la minaccia degli effetti negativi dei cambiamenti climatici, che, rispetto al passato, si stanno diffondendo con una rapidità non compatibile con i ritmi naturali di adeguamento degli ecosistemi e degli stessi sistemi economici come, appunto, quello agricolo. Gli effetti negativi dei cambiamenti climatici si fanno sentire sulle attività agricole in modo diretto, attraverso variazioni qualitative e quantitative delle produzioni ed influenzando le colture con una alterazioni degli stadi fenologici, del sistema fitopatologico e delle esigenze in termini irrigui e di lavorazioni. Altre conseguenze riguardano lo spostamento degli areali produttivi e la modifica di alcune vocazionalità d’area, con il rischio di vanificazione di ingenti investimenti da parte delle imprese agricole, che, specie nel nostro Paese, mirano ad una sempre maggiore identificazione delle produzioni agro-alimentari con il loro territorio di origine.

Questo forse risulta essere il pericolo maggiore per un settore che, stanti le sue connotazioni storiche e territoriali,  deve necessariamente puntare, strategicamente, ad una differenziazione, in termini di modello produttivo e di consumo, rispetto ad altri modelli di agricoltura, basati sull’omologazione e sull’industrializzazione. Un approfondimento a parte merita uno dei fattori di rischio maggiormente alla ribalta nelle cronache odierne, in virtù dei numerosi disastri recentemente registrati. Si tratta del dissesto idrogeologico. La relazione tra dissesto idrogeologico e cambiamento climatico è particolarmente accentuata specie nelle aree soggette all’aumento dei fenomeni meteorologici violenti (erosività, aggressività climatica dovuta alla azione battente e al ruscellamento, variazioni anomale della temperatura).

Altri fattori influenti nel processo erosivo possono essere individuati nell’erodibilità del suolo, nella lunghezza, pendenza e morfologia dei versanti, nella tipologia di colture e tecniche di coltivazione, nella presenza di sistemazioni idraulico agrarie e opere conservative (risalta, ad esempio, l’effetto del terrazzamento nel contrastare i processi erosivi. In un esperienza in Chianti è stata valutata un perdita di suolo di circa 2 t/ha su un versante terrazzato, mentre sullo stesso versante, ma non terrazzato l’erosione è stata di circa 230 t/ha). Da questo punto di vista, l’abbandono dell’attività agricola e della gestione dei boschi, specie in aree interne e di montagna, attualmente, rappresenta un fenomeno che, per quanto legato soprattutto a difficoltà di tipo economico/reddituale da parte delle imprese agricole, costituisce una delle principali concause dei fenomeni di dissesto idrogeologico, a fronte della conseguente carenza manutentiva del territorio, esercitata storicamente dagli agricoltori. Per questo gli investimenti a favore dell’agricoltura, specie in alcune aree, risultano determinanti anche per contrastare il degrado ambientale e territoriale. Si segnala anche come, con l’intensificarsi dei fenomeni violenti e dei disastri, che oltre a procurare danni permanenti alle strutture aziendali, sono sempre più  in grado di alterare le caratteristiche di un territorio, spezzandone il legame identitario con le produzioni agro-alimentari  locali – cominciano a delinearsi anche fenomeni di abbandono dell’attività agricola causati direttamente dal cambiamento climatico.

Il sostegno delle attività agricole, specie in alcune aree, quindi, rappresenta, in modo più o meno indiretto,  il principale strumento per contrastare alcuni tra i principali fattori di rischio climatico (dissesto idrogeologico, erosione, incendi, ecc.) e per ciò dovrebbe anche essere considerato una priorità nell’ambito delle strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. Il contributo positivo dell’agricoltura può venire anche attraverso l’introduzione delle cosiddette  buone pratiche agricole per contrastare gli effetti negativi dei cambiamenti climatici, ma nella definizione delle stesse si deve tener conto della diversificazione geografica degli impatti negativi legati all’evoluzione del clima.

Questa, infatti, fa si che, anche a livello mondiale, a risentire maggiormente degli effetti negativi dei cambiamenti climatici ad esempio, siano proprio i paesi della fascia climatica già sottoposta a difficoltà di gestione della risorsa idrica. A seguito degli effetti dei cambiamenti climatici il divario di accesso all’acqua tra il nord e il sud del mondo rischia, infatti, di divenire ancora più marcato. Per questo, anche nell’ambito dei trattati internazionali che regolano il commercio, il clima dovrà costituire una chiave di lettura prioritaria, in grado di ovviare alle inevitabili distorsioni, collegabili anche ai differenti livelli di adesione agli standard introdotti dal Protocollo di Kyoto da parte di alcuni importanti Paesi. Rispetto a questo scenario, ci si aspetta che una risposta, almeno parziale,  possa venire dalle strategie di adattamento e di mitigazione, che in ogni caso rappresentano un’occasione per la diffusione di modelli produttivi e di consumo più sostenibili, purché ciò avvenga in modo mirato, tenendo, cioè, conto delle diversità di impatto del clima e dei diversi modelli produttivi presenti in determinate aree geografiche. Così facendo, la variabile ambientale conseguente ai cambiamenti climatici potrebbe addirittura essere tradotta in positivo, traducendosi, cioè, in un fattore di competitività per le imprese.

Le strategie di adattamento e quelle di mitigazione, inoltre, non dovrebbero essere gestite separatamente ma in modo complementare. Infatti, è evidente che più investimenti saranno destinati alla riduzione della concentrazione di gas serra, minore sarà la necessità di interventi di adattamento e viceversa. Ciò detto, i cambiamenti climatici impongono la necessità di un nuovo approccio nei confronti dell’impiego della risorse naturali (prima fra tutte quella idrica), ma rispetto a questo scenario, emerge anche il ruolo positivo che il settore agricolo può giocare, riequilibrando la serie di svantaggi diretti dal punto di vista produttivo. Oltre al rafforzamento della azione di presidio territoriale degli agricoltori, in grado, come detto, di influire in modo consistente su alcuni preoccupanti fattori di rischio di interesse collettivo (erosione, dissesto idrogeologico, incendi, siccità, ecc.), va evidenziato come, nell’ambito delle politiche “domestiche” di  mitigazione dei cambiamenti climatici, l’agricoltura possa contribuire in modo consistente alla riduzione delle emissioni nette di co2 e di altri gas serra, attraverso la fornitura di biomassa per finalità energetiche, in sostituzione di fonti fossili di energia, e attraverso l’adozione di pratiche agricole che favoriscano il sequestro del “carbonio” nella biomassa (nel caso di coltivazioni arboree) e nei suoli (nel caso delle colture erbacee).

Tuttavia, anche la diffusione di nuovi modelli di consumo (come ad. esempio la filiera corta e il km0) orientati alla riduzione degli sprechi e delle emissioni da trasporto, contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi delle strategie climatiche e dovrebbero, quindi, essere oggetto di un maggiore sostegno. D’altro canto, la scelta di coinvolgere attivamente il settore agricolo nelle strategie climatiche risulta assolutamente in linea con l’orientamento dell’unione europea, che, attraverso la riforma della Pac, ha sancito il ruolo “multifunzionale” dell’agricoltura, intendendo giustificare le politiche di sostegno del reddito attraverso la capacità del settore di fornire servizi alla collettività, diversi dalla semplice produzione di generi alimentari. In agricoltura, quindi, le strategie di mitigazione ed adattamento, oltreché complementari, dovrebbero anche contribuire in modo particolare al sostegno di un nuovo modello sviluppo, basato sulla sostenibilità sociale, ambientale e climatica.

In parte si tratta di incoraggiare comportamenti e tendenze già in atto. Si pensi ad esempio alla promozione di modelli di consumo caratterizzati dalla riduzione dei trasporti della materia prima (quello che coldiretti ha denominato  progetto “chilometri zero) in risposta alla domanda di un numero crescente di consumatori che adottano, anche nell’alimentazione, stili di vita attenti al risparmio energetico ed alla salvaguardia dell’ambiente e del clima. Oppure alla diffusione della filiera corta (intesa in senso spaziale), concetto legato alla diffusione del consumo dei prodotti stagionali e territoriali. Tale modello rappresenta l’occasione più a portata di mano per offrire valide opportunità reddituali alle imprese e dare impulso allo sviluppo del territorio.

Ancora va promossa la diffusione della vendita diretta ai fini della riduzione della distanza tra produttore e consumatore, contribuendo, nel contempo, a riportare il mercato nella sua dimensione di luogo di incontro piuttosto che di “stabilimento attrezzato”; la difesa, attraverso opportune politiche di etichettatura, dell’identificazione delle produzioni alimentari con il territorio di provenienza, per un “made in Italy” alimentare in grado di porre il territorio al centro dello sviluppo; la lotta agli ogm per impedire la delocalizzazione delle produzioni; alla diffusione dell’uso di oggetti, abiti ed utensili completamente biodegradabili e sicuri da un punto di vista sanitario, provenienti da fibre vegetali o da bioplastiche (attraverso lo sviluppo delle bioraffinerie).

La diffusione pressoché spontanea di queste nuove tendenze, che pure esprimono incoraggianti nuove esigenze e sensibilità del consumatore, può, tuttavia, non risultare sufficiente a scardinare il modello di sviluppo attuale, ancora troppo legato alle logiche di mercato piuttosto che agli obiettivi di miglioramento delle condizioni di vita del cittadino-consumatore.

Questo processo, in realtà, si configura come una vera e propria rivoluzione culturale che dovrebbe essere accompagnata da scelte politiche chiare ed in grado di porre il territorio al centro dello sviluppo e dei parametri di sostenibilità. Queste scelte non possono prescindere da un consistente investimento nel settore agricolo, con la consapevolezza che “investire sul settore che presidia il territorio” significa anche “risparmiare”, ad esempio, sui costi delle emergenze alluvionali e dei dissesti idrogeologici.

Dal punto di vista delle misure di adattamento, che, come  detto, sono comunque necessarie e complementari con quelle di mitigazione, dalle istituzioni ci si aspetta, dunque, un contributo in termini di coerenza politica e lungimiranza, attraverso interventi economici e normativi programmati, attività di monitoraggio e prevenzione che agiscano sulle cause di vulnerabilità, oltre che sugli effetti.

Oltre ad un sostegno effettivo ai citati “nuovi” comportamenti, dovrà anche essere assicurata la promozione di specifiche prassi, sia per le imprese che per i privati. Con riferimento alla gestione agricola e forestale, ad esempio,  dovranno essere promossi interventi finalizzati all’utilizzo efficiente delle risorse idriche; al miglioramento della gestione delle alluvioni; alla manutenzione ed il ripristino di paesaggi multifunzionali; alla promozione di tecniche di gestione forestale che favoriscano la resistenza ai cambiamenti climatici.

Tornando al dissesto idrogeologico, è evidente come il settore agroforestale possa giocare un ruolo chiave, specie nell’ambito delle misure preventive. Non deve essere trascurata, ad esempio, la grande importanza di una razionale gestione agricola, per i benefici effetti che ne derivano nelle aree sottostanti, determinati dal consolidamento delle pendici, dalla riduzione del trasporto solido e dei deflussi idrici, e dalla conservazione delle risorse naturali contro il degrado ambientale e paesaggistico. Soprattutto, però, ci troviamo di fronte alla necessità di contrastare i fenomeni erosivi e di dissesto idrogeologico attraverso la realizzazione di nuovi schemi sistematori dei terreni e l’adeguamento di quelli esistenti, oltre al ripristino e la manutenzione di opere di elevata efficacia idraulica oltre che di valore paesaggistico come per esempio i terrazzamenti e le residue vecchie sistemazioni idraulico agrarie.

Diviene prioritaria anche la messa a punto di opportuni strumenti di monitoraggio e di controllo a supporto delle decisioni, sia a livello aziendale che a livello di pianificazione territoriale. In questo senso, la disponibilità di una adeguata modellistica agrometeorologica può rappresentare il presupposto essenziale per gestire il cambiamento climatico. Si ribadisce, inoltre, come l’impresa agroforestale possa assumere un ruolo da protagonista nelle strategie climatiche anche assicurando la fornitura di servizi ecosistemici. A tale scopo, devono essere previsti specifici interventi che valorizzino il ruolo multifunzionale dell’impresa agricola, rendendo effettive, al contempo, le norme già in vigore. E’ infatti evidente che l’agricoltore che tutela il territorio guarda non solo il suo interesse, ma anche quello della collettività e dunque la sua attività deve essere remunerata dagli Enti locali attraverso la stipulazione di accordi di manutenzione (D. L. n 228 del maggio 2001)

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