il Punto Coldiretti

Iniziata la ratifica dell’accordo di Parigi sul clima

Il 22 aprile scorso, 175 leader mondiali si sono riuniti a New York, presso la sede delle Nazioni Unite, per ratificare quanto stabilito nell’accordo sul clima siglato a Parigi durante la Cop21.
Il segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha definito la giornata come “un momento storico per l’umanità” aggiungendo, però, che si tratta solo dell’inizio del percorso necessario a garantire che l’accordo di Parigi possa effettivamente contribuire a contrastare i cambiamenti climatici a livello globale.

Si ricorda che l’accordo sul clima siglato a Parigi nel dicembre scorso è stato adottato dalle 196 parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (Unfccc) e punta essenzialmente a limitare l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2 gradi centigradi e ad adoperarsi per non superare i 1,5 gradi, rispetto ai livelli dell’era preindustriale. Come stabilito a Parigi, l’effettiva entrata in vigore del trattato è prevista 30 giorni dopo che almeno 55 paesi, che rappresentano il 55% delle emissioni globali di gas a effetto serra, depositeranno gli strumenti di ratifica o di accettazione presso il segretario generale dell’Onu.

Proprio a tal fine, il 22 aprile scorso, a New York, si è svolta la cerimonia di apertura delle operazioni di ratifica del trattato che ha coinvolto ben 177 Paesi. Come noto, però, la ratifica formale dell’accordo di Parigi, per tradursi in effettive misure di riduzione delle emissioni, dovrà essere seguita da specifiche politiche di livello nazionale, per dar seguito agli impegni che, singolarmente, i Paesi firmatari hanno dichiarato di voler perseguire, secondo il principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”. Proprio al riguardo, sia a livello nazionale che europeo, sembra, tuttavia, delinearsi qualche esitazione di troppo, a prescindere dalle dichiarazioni di impegno rilasciate a livello mediatico. A detta di molti, infatti, l’Unione europea sta rischiando di perdere quella leadership tanto faticosamente guadagnata nel tempo nell’ambito dei negoziati mondiali sul clima, accumulando ritardi sia nella distribuzione dei target nazionali di riduzione della CO2 del pacchetto legislativo per il 2030, sia sugli impegni di Parigi.

A conferma di ciò ci sono anche le dichiarazioni rilasciate a New York del Commissario Europeo al Clima, Miguel Arias Canete, che, ben consapevole del tempo necessario per assicurarsi il sostegno di 28 governi e 29 Parlamenti, inclusa l’Eurocamera, ha detto che di aver “bisogno di tempo” per presentare sia la proposta di ratifica dell’accordo di Parigi, sia gli obiettivi nazionali al 2030 di riduzione di CO2 per i settori non coperti dal mercato europeo delle emissioni (Ets), come agricoltura, trasporti e edilizia.

Il paradosso è che, dopo anni in cui l’Ue ha fatto da apripista a livello mondiale negli impegni di riduzione delle emissioni climalteranti, c’è il rischio che il tetto del 55% per l’entrata in vigore del trattato di Parigi possa essere raggiunto addirittura entro il 2016/2017 senza il contributo europeo, visto che Usa e Cina, che insieme contano circa il 40% delle emissioni globali, hanno già annunciato di voler ratificare l’accordo quest’anno, probabilmente intorno a settembre, in concomitanza con l’Assemblea generale dell’Onu.

Anche per quanto riguarda l’Italia i segnali non sono molto incoraggianti. Secondo quanto riportato nel Climate Report della Fondazione Sviluppo sostenibile, ad esempio, nel 2015, dopo anni di calo (-20% al 2014 rispetto al 1990), le emissioni nazionali di gas serra sono di nuovo aumentate del 2,5%. L’incremento è dovuto alla crescita del Pil, al calo del prezzo del petrolio e del gas, all’aumento dei consumi energetici, a un rallentamento delle politiche di efficienza energetica e all’interruzione della crescita delle fonti energetiche rinnovabili. Se, come noto, infatti, tra il 2005 e il 2012 l’Italia, ha raggiunto risultati importanti nello sviluppo delle fonti rinnovabili – soprattutto grazie all’aiuto degli incentivi – portando il loro contributo dall’8 al 16% del consumo nazionale di energia (facendo meglio della media europea), nell’ultimo triennio la situazione ha subito un inversione di tendenza. Sempre secondo il dossier della Fondazione, le rinnovabili sono passate dal 16,7% nel 2013 al 17,3% del 2015, con una crescita modestissima (0,2% all’anno) e con una diminuzione della quota elettrica (dal 43% al 38% tra il 2014 e il 2015). Così facendo, pur avendo già centrato l’obiettivo europeo del 17% al 2020, l’Italia risulta ancora ben lontana sia dall’obiettivo europeo del 27% al 2030, sia dall’attuazione dell’Accordo di Parigi.

Sempre secondo il report della Fondazione “Collocando l’obiettivo della variazione di temperatura in una posizione intermedia – fra i 1,5°C e 2°C – con l’Accordo di Parigi, l’Italia al 2030 dovrebbe ridurre le emissioni di gas serra intorno al 50% rispetto al 1990: ciò richiederebbe un forte impegno nel risparmio e nell’efficienza energetica con una riduzione dei consumi attesi di circa il 40% e un raddoppio della quota di fonti rinnovabili, dal 17,3% a circa il 35% del consumo energetico finale al 2030 e nel solo comparto elettrico, le rinnovabili dovrebbero soddisfare almeno 2/3 della domanda di elettricità”.

Per attuare l’Accordo di Parigi, in sostanza, sembra che nostro Paese sia chiamato a definire una nuova Strategia Energetica Nazionale, caratterizzata da obiettivi ambiziosi al 2030 ed in grado di valorizzare le grandi potenzialità del settore agroforestale in termini di contributo alla produzione di energia rinnovabile (ottenuta mediante l’impiego della biomassa proveniente principalmente da scarti e residui dell’attività agroforestale), oltre che la capacità di suolo e piante di sequestrare CO2 e contribuire, così, al contenimento delle emissioni climalteranti.

In merito al contributo del settore agroforestale nelle strategie di mitigazione climatica, tra l’altro, a livello europeo si sta registrando un evoluzione degli strumenti normativi che può definirsi “a due velocità”: molto più rapido, infatti, sembra, il percorso attuato dall’Ue per responsabilizzare il settore agricolo in termini di riduzione delle emissioni, consumo di risorse idriche e fertilizzanti/agrofarmaci, rispetto a quello che dovrebbe, invece, portare ad un effettivo riconoscimento del ruolo dell’agricoltura nel settore della “carbon sequestration” (vedi la difficoltà/impossibilità di valorizzazione economica dei crediti di carbonio prodotti dalle imprese agroforestali nell’ambito sia istituzionale che dei mercati volontari) e nel contrasto al dissesto idrogeologico.

 

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