il Punto Coldiretti

Produzione, si va verso l’impronta ecologica degli alimenti

In occasione della V° Conferenza ministeriale su ambiente e salute, Corrado Clini, direttore generale del Ministero dell’Ambiente, ha annunciato la prossima adozione di un programma nazionale per la riduzione dell’impronta di carbonio nel sistema agro-alimentare italiano. Secondo Clini, lo strumento si rende necessario, nell’ambito delle strategie nazionali per la riduzione delle emissioni, per cominciare ad intervenire anche sul ciclo del consumo degli alimenti.

L’ipotesi di programmi per contenere le emissioni agricole si sta facendo avanti anche in altri paesi europei e sempre più spesso si sente parlare della cosiddetta "impronta ecologica" degli alimenti (in Gran Bretagna la catena Tesco lo fa già). L’Italia, in questo settore, potrebbe partire avvantaggiata, puntando addirittura ad assumere una posizione di leadership mondiale, anche considerando gli universalmente riconosciuti benefici della dieta mediterranea.

Ben venga, dunque, ogni strumento che possa certificare e valorizzare le produzioni agroalimentari ottenute con metodi rispettosi dell’ambiente e a basso contenuto di emissioni di gas serra, così come promuovere modelli di consumo virtuosi, come la filiera corta e la vendita diretta, fortemente sostenute da Coldiretti.

Queste forme di consumo, infatti, potrebbero trovare il loro definitivo consolidamento, attraverso, ad esempio, incentivi e snellimenti burocratici in grado di contribuire sempre più alla loro diffusione in virtù delle migliori performance ambientali, legate alla riduzione delle emissioni da trasporto, ma anche per gli effetti benefici sulla salute dei consumatori, basandosi su prodotti agroalimentari freschi e stagionali, il cui completamento del processo naturale di maturazione è garantito senza l’aggiunta di conservanti.

Non si ritiene condivisibile, invece, l’approccio adottato dal direttore generale del Ministero quando, nel presentare l’iniziativa come una opportunità per la filiera agricola italiana di qualità, introduce affermazioni che rischiano, in sostanza, di dare un immagine negativa del settore zootecnico, scoraggiando il consumo di carne in generale.

Le produzioni zootecniche nazionali, infatti, oltre a costituire un importante comparto economico dell’agricoltura, anche in termini occupazionali, sono oggetto da tempo di una rigorosa legislazione comunitaria per quanto riguarda l’impatto ambientale degli allevamenti, sia attraverso il rispetto degli obblighi previsti dalla direttiva nitrati sia per l’osservanza della disciplina in materia di benessere animale.

I dati riportati nella comunicazione (provenienti da rappoti Fao), infatti, non possono essere considerati rappresentativi del comparto zootecnico italiano ed europeo. Il settore agricolo sarebbe globalmente responsabile di almeno il 22% di tutte le emissioni di gas serra prodotti dalle attività umane, ma – come più volte ribadito da Coldiretti – questo dato non corrisponde assolutamente né alla situazione italiana (dove l’agricoltura è responsabile solo del 6,7% delle emissioni nazionali, dati Ispra 2008) né a quella europea.

Riteniamo che un chiarimento in questo senso sia necessario, anche al fine di scongiurare il rischio che uno strumento per la valorizzazione dei comportamenti virtuosi delle imprese agricole possa, sulla base di dati di partenza errati, apportare ulteriori misure vincolistiche e penalizzanti per l’agricoltura. I dati presentati, infatti, provengono da diversi rapporti di organismi internazionali che attribuiscono consistenti contributi percentuali di emissioni di gas serra al settore agroindustriale e, in particolare, alla filiera carne.

Anche rispetto a quest’ultimo aspetto, a livello nazionale il dato non trova corrispondenza in quanto, sempre secondo i dati Ispra, le emissioni di metano (la principale fonte di emissioni del settore zootecnico) di origine agricola rappresentano poco più del 3% delle emissioni totali nazionali (21,50 Mtco2eq/a su un totale di 455,71 Mtco2eq/a).

Per spiegare le discordanze tra i dati nazionali e quelli citati va rilevato che, questi ultimi (contenuti in tutti in recenti rapporti Fao e direttamente ispirati alle pubblicazioni del noto economista americano, Rifkin) sono dichiaratamente riferiti all’incidenza, in termini di emissioni, dell’intera filiera zootecnica (compresi i processi a monte, quali la produzione e il trasporto di mangimi).

Si tratta, dunque, di dati fortemente influenzati dall’elevato indice di industrializzazione ed intensivizzazione degli allevamenti del modello Usa. Tuttavia, in un ambito che non dovrebbe prescindere dalla situazione nazionale ed europea, andrebbero citati spiegando meglio i contesti e stando bene attenti a non mettere all’indice in modo generico la produzione ed il consumo di carne, che, nella giusta misura, rappresenta, invece, un alimento importante per l’alimentazione umana.

I dati Fao, infatti, compaiono nei suddetti report internazionali con l’obiettivo di supportare l’acceso dibattito in corso a livello mondiale nell’ambito della competizione tra feed e food, ma così come vengono troppo spesso diffusi (senza i necessari distinguo) appaiono contestabili proprio perché non sembrano tener conto della varietà di metodo delle produzioni zootecniche a livello mondiale. Infatti, in paesi come Brasile, Argentina, Uruguay e Australia la carne viene prodotta ancora con l’allevamento allo stato brado. Sembra allora quanto mai improbabile che il modello Usa sia così determinante nell’ottica di un bilancio globale.

Anche in termini di evoluzione del trend andrebbe ricordato, inoltre, che a livello europeo, secondo una stima effettuata dal Copa-Cogeca (organismo che rappresenta le organizzazioni agricole europee), le emissioni del settore agricolo nell’U27 sono calate del 20% nel periodo 1990-2007 (questo grazie alla riforma della Pac, ad un uso più efficiente di concimi e fertilizzanti e a causa di un notevole sforzo degli allevatori europei nell’attuazione di iniziative agricole e ambientali) e che anche a livello nazionale, in base alle rilevazioni Ispra, il trend delle emissioni di gas serra della zootecnia vede una tendenza alla riduzione nel periodo 1990-2006 (il metano di origine zootecnica, in particolare, è calato del 12%).

A questo va aggiunto, inoltre, che, come peraltro più volte affermato anche dalla Commissione Europea, grazie al progresso tecnologico costantemente in atto nel settore vi siano le condizioni per una ulteriore riduzione degli impatti ambientali degli allevamenti zootecnici.

Pur comprendendo la necessità di supportare il lancio di un progetto nazionale, che ha come obiettivo la riduzione delle emissioni, attraverso la diffusione di informazioni relative agli impatti settoriali, si ritiene importante fare riferimento a dati puntuali, magari meno eclatanti, ma più rispondenti all’attualità e al trend nazionale e comunitario. La frequente diffusione di dati generici circa le responsabilità agricole in campo climatico e ambientale, infatti, potrebbe da qualcuno anche essere interpretata come la ricerca di un capro espiatorio rispetto alle reali e ben più consistenti responsabilità di altri settori, così come alle inadempienze della politica nazionale nei confronti degli obiettivi del protocollo di Kyoto e, in generale, nell’approccio al negoziato climatico internazionale.

E’ il caso, allora, di ribadire ancora una volta che gli impatti ambientali dell’agricoltura italiana, rispetto a quelli provocati del settore energetico ed industriale, sono marginali. Il settore agricolo, inoltre, essendo quello maggiormente esposto ai cambiamenti climatici, dovrebbe essere sostenuto, anziché colpevolizzato.

Maggiori investimenti in agricoltura, inoltre, potrebbero contribuire ulteriormente al contenimento dei fattori di pressione climatica (erosione, dissesto idrogeologico, ecc) oltre che al miglioramento del bilancio nazionale delle emissioni, sia sfruttando la naturale capacità di assorbimento del carbonio nelle piante e nel suolo, sia attraverso la sostituzione di quote di energia prodotta dalle fonti fossili con quelle ottenute dalle fonti rinnovabili di origine agricola.

Si ricorda che il settore agro-forestale già contribuisce in modo consistente al bilancio nazionale delle emissioni, grazie alla contabilizzazione annua di 25,3 MtCO2. Inoltre, secondo un recente studio Coldiretti – Ceta, sulla base di una previsione di scenario al 2020, il contributo energetico dell’agricoltura raggiungerà i 11,50 Mtep/anno (pari all’8% del bilancio energetico nazionale), con una CO2 evitata pari a 26,37 Mt/anno.

Si auspica che il programma nazionale per la riduzione dell’impronta di carbonio nel sistema agro-alimentare italiano, annunciato dal direttore generale del Ministero dell’Ambiente, possa rappresentare uno strumento di consolidamento di queste importanti potenzialità.

Registrato presso il Tribunale Civile di Roma, Sezione per la Stampa e l'Informazione al n. 367/2008 del Registro della Stampa. Direttore Responsabile: Paolo Falcioni.
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