La riforma agraria 1950
La riforma agraria del 1950 è stata la più grande redistribuzione di terre ai contadini e ha rappresentato un tassello fondamentale del consolidamento della democrazia in Italia. Ed è per questo che è importante tenere vivo il ricordo e il valore economico e politico della riforma agraria. Voluta fortemente dalla Coldiretti, come ha ricordato anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della celebrazione degli 80 anni della maggiore organizzazione agricola italiana ed europea. Ed è un peccato che la ricostruzione di quell’evento sia stata “sporcata” da qualche inesattezza storica. Nel corso della trasmissione di Paolo Mieli “Passato e Presente” del 21 ottobre scorso è stato ampiamente sottolineato il passaggio di oltre 800mila ettari dalle grandi proprietà a migliaia di piccoli coltivatori. Ma in un intervento sono state attribuite responsabilità che non hanno alcuna base. Come per esempio aver sostenuto che l’abbandono dei borghi è stato determinato dal fatto che con la riforma agraria non si è creato un tessuto sociale, ma i contadini si sono ritrovati soli, vere e proprie monadi, ed è per questo mancato lo spirito di comunità. Come se fossero stati deportati e isolati. La realtà è che i contadini sono rimasti là dove erano, ma passando dalla condizione che in alcuni casi era di veri servi della gleba a quella di proprietari di piccoli appezzamenti che hanno rappresentato il primo tassello di quell’evoluzione che ha portato l’agricoltura italiana a essere un modello di impresa familiare e a svettare in Europa. A svuotare le aree interne è stata una industrializzazione dissennata che aveva bisogno di braccia. La riforma agraria più volte è stata criticata, per esempio per aver favorito lo spezzettamento delle aziende che per anni sono state caratterizzate da una maglia poderale inferiore a quella dei partner Ue. Ma in quel contesto storico non si poteva fare altro. Senza un intervento forte di deciso taglio con il passato sarebbero rimasti latifondi e ingiustizie. Forse chi ha attribuito alla creazione di tanti piccoli assegnatari di terre agricole la “colpa” della mancata aggregazione sociale aveva in mente il modello russo dei kolchoz, la proprietà agricola collettiva. Ma quella era tutta un’altra storia. E comunque l’esperienza è fallita e con la dissoluzione dell’Unione sovietica i kolchoz sono stati privatizzati. Le aziende nate dalla riforma agraria invece si sono rafforzate e sono diventate imprese modello che tengono duro anche in periodi difficili e hanno dimostrato infatti grande resilienza dal Covid alle guerre in corso. La grande intuizione della vendita diretta, ancora una volta frutto della visione di Coldiretti, ha offerto poi un valido sostegno a quelle piccole realtà produttive agricole che rischiavano di essere stritolate dalla lunga catena di intermediari. E allora grande apertura a tutte le valutazioni sulla riforma agraria, anche con qualche critica, perché sicuramente in azioni di grande portata come quella qualche criticità c’è stata, ma non è accettabile mettere in discussione l’evoluzione che ha innescato trasformando i braccianti in imprenditori agricoli. E se le aree interne e più disagiate, nonostante lo spopolamento, comunque hanno tenuto e ora stanno ritrovando una nuova prospettiva, il merito va tutto a loro, ai piccoli imprenditori agricoli nipoti di quei poveri braccianti sfruttati che hanno plasmato un’agricoltura di qualità, che hanno tutelato il patrimonio di biodiversità e che hanno fatto del made in Italy a tavola un brand gettonato in tutto il mondo. Tutto grazie alla forza propulsiva di Coldiretti che per la riforma agraria si è battuta contro i poteri forti dell’epoca e che ha sempre continuato a credere nella impresa familiare e che ora sta puntando con convinzione su filiere competitive in grado di garantire ai cittadini cibi eccellenti e sicuri. Su cui non è disposta ad arretrare di un passo. Questa è la storia vera. Di ieri e di oggi. |
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