Grana Padano, il prezzo del latte non è giusto
In Italia il Grana Padano è sicuramente il formaggio più significativo nell’ottica della valorizzazione del prezzo del latte alla stalla. Questo per molti motivi: perché con le sue 2,2 milioni di tonnellate di latte lavorato rappresenta il 20 per cento del latte del Paese, perché si produce nella Pianura Padana e quindi laddove gran parte del nostro latte viene prodotto, perché esiste una vivace contrattazione al momento del conferimento di questo latte ai caseifici italiani (che hanno prodotto lo scorso anno 4.355.347 forme), e per altri motivi ancora. Non deve quindi meravigliare se su questo prodotto del made in Italy si concentrano le attenzioni di molti allevatori che ripongono nella valorizzazione di questo formaggio la speranza della sopravvivenza delle proprie imprese agricole. Ma sospettiamo non sia proprio così per gli utilizzatori, alcuni dei quali hanno commercializzato formaggio spacciandolo per Grana Padano grattugiato. Altri sono stati “distratti” dalla gamma delle proprie produzioni casearie, che spesso comprendono prodotti simili al Grana Padano, altri entrati in settori come quello della commercializzazione, vanno potenzialmente in contrasto con l’interesse degli allevatori: quello di remunerare il prezzo latte attraverso la valorizzazione del formaggio. Eppure il Grana Padano tutto è tranne che un prodotto in difficoltà. I consumatori italiani continuano ad acquistarlo. Se fosse la crisi a dettare le regole crollerebbero i quantitativi venduti, poi i prezzi al consumo e solo alla fine il valore del latte. Ma non è così: dai dati resi noti dagli istituti di ricerca risulta che rispetto al 2007, le scorte sono diminuite del 7%, i prezzi medi alla vendita al consumatore sono cresciuti del 4,2% (attestandosi intorno agli 11,05 euro al chilo) e, nonostante ciò, il volume degli acquisti domestici, secondo una statistica di AcNielsen Italia è aumentato del 4,6%. La vera questione della zootecnia è quella dei bassi prezzi del latte e sta nel fatto che gli allevatori non hanno nessun potere contrattuale. Una volta era la trasformazione o l’intermediazione, ora è la grande distribuzione; sta di fatto che c’è sempre qualcun altro che detta le regole, qualcun altro che vuol vendere la qualità che gli allevatori hanno prodotto. E gli allevatori di bovine da latte, che tra l’altro non possono fare magazzino con il latte prodotto, sono sempre più il ricettore di scarico di tutte le inefficienze della filiera, dell’incapacità di distribuire equamente il valore. Vale l’assioma: prendo meno pago meno. Non è certo facile, ma gli allevatori hanno una sola strada per uscire da questa situazione, per non diventare i mezzadri dei trasformatori o molto più spesso della grande distribuzione: riappropriarsi delle loro cooperative e inserirsi a testa alta in una filiera che deve diventare più agricola e firmata dagli stessi allevatori italiani. Allora si potrà finalmente affrontare il problema della frammentazione dell’offerta e della concorrenza spietata che i trasformatori attualmente si stanno facendo nel rifornire le 5-6 grandi centrali d’acquisto in un sistema che vede la progressiva concentrazione di molte insegne della grande distribuzione organizzata. |
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