Dopo il crollo di Wall Street gli Usa “comprano locale”
Boston – Ridare vita alla vecchia “family farm” (l’azienda rurale a conduzione familiare), riportare in auge un’agricoltura sostenibile, alla portata delle tasche dei consumatori. All’indomani del crollo di Wall Street l’America si interroga con maggiore insistenza sul futuro del suo sistema economico e si chiede se non sia giunta l’ora di rivedere completamente l’organizzazione produttiva, a cominciare dal sistema agroalimentare, dominato negli ultimi trenta anni dalle coltivazioni intensive e dalla produzione industriale. Un sistema che sembra avere le ore contate. Proporre alle famiglie cibi che consumano milioni di barili di petrolio per potere essere “creati” e portati a destinazione appare infatti sempre piu’ una follia. Cosi’ la vecchia, cara fattoria che aveva dato forza e nutrimento all’America dei pionieri, ritrova l’antico smalto e una folla crescente di sostenitori. I sei stati del New England (Massachesetts, Maine, Rhode Island, Vermont, New Hampshire e Connecticut) hanno lanciato da qualche mese una campagna di informazione che sta coinvolgendo un numero crescente di consumatori. “Buy local” (compra locale) e’ lo slogan di un movimento trasversale alle classi sociali che propone uno stile di vita piu’ sano, rispettoso dell’ambiente e consapevole. Un sito internet (www.foodroutes.org/buy-local-challenge) invita espressamente i consumatori americani a sostenere gli acquisti locali e a boicottare gli alimenti che percorrono migliaia di chilometri inquinando l’ambiente. “Acquistare dalle aziende agricole della zona – dice Michael Shiman, un’economista impegnato nella diffusione della cultura “glocal” – significa rafforzare l’economia locale, significa proteggere la propria salute e diminuire le emissioni nocive di anidride carbonica. Significa anche dare valore a cio’ che portiamo a tavola”. Del resto, non e’ solo una questione di risparmio economico: e’ anche un problema sociale, etico, addirittura militare, sostengono alcuni. Il paradosso di un sistema agroalimentare non piu’ sostenibile irrompe ogni giorno nella case di milioni di americani. In cucina, le immagini dei corpi straziati di tanti militari caduti in Iraq per una guerra legata in parte anche all’approvvigionamento del petrolio scorrono impietose sulla tv mentre le famiglie consumano un pasto che di quel petrolio si e’ oltremodo nutrito: asparagi arrivati con un Boeing 747 dall’Argentina, more giunte su un camion dal Messico, insalata mantenuta a due gradi dal momento in cui viene raccolta in Arizona fino a quando viene acquistata nel supermercato (con grande dispendio di energia). L’industria alimentare, scrive il New York Times, brucia un quinto del petrolio consumato negli Stati Uniti, quasi quanto tutte le automobili del Paese. Attualmente sono neccessarie dalle sette alle dieci calorie di combustibile fossile per produrre ogni singola caloria che finisce sulle tavole americane, mentre un pasto medio percorre in media 2.500 chilometri. Una sistema che va difeso con le armi. Ha senso continuare in questa direzione? In molti pensano di no. E cosi’ avanza il “popolo senza codici a barre”, il popolo che fa la spesa nei mercati degli agricoltori e si tiene a distanza dalla grande distribuzione. Joel Smith gestisce un’azienda polifunzionale di 40 ettari nel Vermont. Alleva manzi, polli, maiali, tacchini e coltiva cereali, frutta e ortaggi secondo i metodi dell’agricoltura tradizionale, rispettando le rotazioni colturali ed i cicli naturali. Tutto cio’ che viene prodotto nella sua fattoria viene venduto direttamente. “Una bistecca, un pollo, una confezione di uova possono arrivare nel piatto del consumatore per cinque vie diverse”, spiega Smith, ed elenca: “vendita diretta nel negozio dell’azienda, mercatini agricoli (farmers market), gruppi di acquisto metropolitani, e poi negozietti e ristoranti della zona”. Cinque differenti canali di vendita la cui gestione e’ affidata al fratello di Joel, Adam. “La rivoluzione – aggiunge – inizia quando il cliente si prende la briga, e si accolla il costo aggiuntivo, di comprare direttamente da un produttore del quale si fida. Del resto, l’unica garanzia significativa dell’autenticita’ di un prodotto si ha quando venditore e compratore possono guardarsi negli occhi, cosa che ben pochi di noi si prendono il disturbo di fare oggigiorno”. Bizzarro, commenta poi sottovoce, che la gente faccia piu’ attenzione a scegliere un meccanico o un agente immobiliare che la persona che produce il suo nutrimento. La filiera corta sembra rispondere a molte necessita’. In un sabato di settembre, in un affollatissimo farmers market di Norwich, ho raccolto al volo alcuni commenti dei consumatori. “Cosa li spingeva a sobbarcarsi spesso decine di chilometri per fare shopping al mercato dei coltivatori?”, la domanda. Ecco le risposte: “Non mi fido del cibo che si vende al supermercato”. “Le uova ed i formaggi che vendono qui sono fantastici, ti danno una botta di sapore”. “Non esistono verdure e frutta piu’ fresche di queste”. “Faccio cinquanta chilometri all’andata e altrettanti al ritorno pur di comprare carne genuina per la mia famiglia”. “Mi fido piu’ degli agricoltori locali, che conosco personalmente, piuttosto che della Wal-Mart”. Alla base del successo dell’agricoltura locale c’e’ dunque un misto di piaceri alimentari, di paure e nostalgie legate al cibo, oltre alla soddisfazione, evidente in molti, di passare un po’ di tempo sull’aia di una “farm” e di trascorrere qualche ora in campagna. Per molti americani riavvicinarsi alla fonte di cio’ che mangiamo e’ un’idea dotata di grande forza. Per i coltivatori, la vendita diretta e’ invece un modo per tenersi il 92 per cento di quello che alla fine il consumatore paga per i cibo, e che oggi normalmente finisce nelle tasche degli addetti alla lavorazione, alla distribuzione e alla vendita al dettaglio. Un successo netto, quello registrato negli ultimi mesi nel settore della vendita diretta. E la grande distribuzione non sta a guardare. Anzi, sembra decisa ad agganciare anche lei una buona fetta del mercato. Dello sforzo “glocal” della Gdo ci si rende conto entrando in uno dei tanti Wal-Mart disseminati nel Paese. Gli scaffali sono puntellati di cartelli gialli con l’invito a “comprare locale” e variopinti stand a forma di casetta propongono ai clienti assaggi di formaggi, verdure, vini e fragranti torte delle aziende della zona. Una tendenza emulata anche da esercizi commerciali e ristoranti che cominciano ad esporre l’etichetta: “sosteniamo l’agricoltura locale”. Certo, i ristoranti low-cost continuano ad approvvigionarsi dalla grande distribuzione, puntando evidentemente al risparmio a scapito della qualita’. Ma gourmand e chef di un certo livello esibiscono con orgoglio sui propri menu i prodotti acquistati dagli agricoltori. “Un formaggio di una fattoria del Vermont da’ un gusto ineguagliabile a qualsiasi piatto prepari, e poi e’ vero che costa di piu’ – dice Brian Portland, un ristoratore del New Hampshire – ma ne basta pochissimo per profumare e dare sapore alla pietanza. E dunque alla fine il risparmio c’e’ comunque. E’ una scelta miope pensare che al farmers market si spenda piu’ che al supermercato”. La battaglia di molti chef del New England e’ anche quella di rimettere in sincronia le stagioni con gli alimenti. “Dobbiamo combattere l’idea che il cliente possa avere tutto quel che vuole in ogni periodo dell’anno. Non mi si puo’ chiedere una macedonia di fragole fresche a dicembre o una crema di lodi a ferragosto – continua Brian, con piglio integralista – io non gliela do, punto e basta. Il ciclo naturale della vita non e’ fatto cosi’”. Ormai il trend sembra inarrestabile. Il movimento “Buy local” continua a lanciare slogan ed a fare proseliti ed i mercati degli agricoltori fanno cassa. Certo non son tutte rose e fiore. Molti, ad esempio, accusano i farmers di elitarismo a causa del costo dei prodotti, superiore a quello della grande distribuzione. “A chi si lamenta dei prezzi – replicano gli organizzatori del farmers market di Norwich – rispodiamo che in realta’ i nostri prodotti sono i piu’ economici sul mercato. In genere ci guardano increduli. E a quel punto spieghiamo che noi teniamo conto di tutti i costi, visibili e invisibili, nel prezzo finale: con la carne ruspante la societa’ non deve sopportare il fardello dell’inquinamento delle falde acquifere causato dai mega allevamenti industriali, non deve sopportare il costo della resistanza agli antibiotici, delle malattie di origine alimentari, dei sussidi statali all’agricoltura, dei prezzi agevolati per acqua e combustibile: sono tutte voci di spesa nasconte che gravano sull’ambiente e sul contribuente e che fanno sembrare il prodotto industriale piu’ economico. Nessuno con un minimo di sale in zucca rimane indifferente a questo discorso. Noi diciamo ai nostri clienti che la realta’ e’ semplice: comprare alimenti con un prezzo onesto oppure alimenti con un prezzo irresponsabilmente basso”. E a giudicare dall’esorbitante numero di persone che ogni sabato affolla il variopinto e allegro mercato, pare che in pochi diano loro torto. da Ufficio Stampa Coldiretti Lecce |
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