il Punto Coldiretti

Le mani dei francesi sulla Parmalat, Lactalis “scala” il gruppo di Collecchio

Occhi puntati sul Consiglio di amministrazione di venerdì 1° aprile per sapere se il futuro della Parmalat sarà francese o ci sarà tempo per organizzare l’attesa cordata italiana. Il cda dell’azienda di Collecchio dovrà, infatti, decidere se rinviare o meno l’assemblea degli azionisti e sfruttare l’assist offerto dal Governo con le norme anti-opa.

Il decreto varato la scorsa settimana prevede la possibilità di ritardare di due mesi la convocazione per l’approvazione del bilancio e per il rinnovo dei vertici. In questo modo ci sarebbe più tempo per la presentazione di una proposta alternativa a quella della Lactalis. Al momento l’ipotesi più accreditata vede la formazione di una cordata sotto la spinta di Intesa SanPaolo e della quale farebbero parte diverse realtà industriale, a  partire da Ferrero, disponibili a contrastare il blitz messo a segno la scorsa settimana da Lactalis.

Il “raid” francese sulla Parmalat si era concretizzato in poche ore: i tre fondi esteri che complessivamente avevano ceduto il loro 15,3% (Zenit, Skagen e Mackenzie) si erano detti fino all’ultimo più propensi a vendere ad italiani; poi l’offerta transalpina – neppure incredibilmente alta (2.8 euro ad azione), ma l’unica sicura – aveva portato al colpo di scena e l’affare si era chiuso lo scorso 22 marzo a 750 milioni di euro. La Lactalis è arrivata così a detenere il 29% delle azioni Parmalat e dovrebbe quindi poter contare sulla maggioranza relativa nel prossimo Consiglio di amministrazione (gli altri azionisti sono Blackrock, 4.95%; Intesa San Paolo, 2.45%; il mercato 63.6%). 

“L’italianità va difesa dalla stalla alla borsa e per questo è prioritario un progetto industriale che valorizzi veramente il latte e i quasi 40mila allevamenti italiani e si impegni su un  Made in Italy che, oltre al marchio, contenga materie prime nazionali – ha commentato il presidente di Coldiretti, Sergio Marini – E’ auspicabile che siano imprenditori italiani a governare questo processo in quanto dovrebbero essere più sensibili alla tutela del vero prodotto italiano. Non è più pensabile – precisa Marini – slegare l’italianità dal coinvolgimento pieno della zootecnia e dell’agricoltura italiana. Peraltro la strategicità del settore agroalimentare non può essere legata al solo fatto che nel nostro Paese ci sia solo la sede legale del marchi o la sola trasformazione industriale”.

Nel 2010 ben 8,6 miliardi litri in equivalente latte hanno attraversato la frontiera per  essere confezionati dietro marchi italiani. “Il caso Parmalat conferma che la delocalizzazione degli approvvigionamenti e spesso accompagnata – conclude Marini – da una delocalizzazione degli stabilimenti produttivi e quindi della proprietà”.

Controllare Parmalat vuol dire non solo mettere le mani sulla sua cassa – 1.5 miliardi di euro – ma anche decidere delle sorti di 2.223 dipendenti distribuiti su 12 siti produttivi che fatturano 992 milioni di euro. In Italia il Gruppo Parmalat raccoglie 5,5 milioni di quintali di latte su un totale di 109 milioni di quintali (pari al 5%) e con i suoi 4 marchi – Parmalat, Santal, Chef ed Elena – controlla il 34.8% del mercato del latte Uht (di cui è leader nazionale), il 25.6% del latte pastorizzato, il 5.7% degli yogurt e il 15% dei succhi di frutta.

Il Gruppo Lactalis è il terzo gruppo lattiero mondiale, il primo gruppo lattiero e caseario europeo; è il primo produttore di formaggi italiani (con i marchi Cademartori, Galbani, Invernizzi e Locatelli) e di formaggi francesi. Ma non solo: ha una raccolta di 9.2 miliardi di latte, lavorati in 125 siti industriali su 148 Paesi con un fatturato di 10 miliardi di euro. Per ironia della sorte, non essendo quotata in Borsa non ha neppure un bilancio pubblico e – mantenendo ancora oggi l’impostazione di un’azienda “familiare” con tre soli soci – può permettersi il lusso di agire senza grossi vincoli, nella massima riservatezza.

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