“Vede quanti bei prosciutti sono appesi in questo negozio? Beh, sappia che due su tre sono cosce di maiali allevati all’estero senza che nessuno dice né da dove arrivano né come vengono nutriti. Vogliamo dire del latte Uht che per il 70% è importato?, oppure del fatto che una buona metà delle mozzarelle è prodotta con latte se non addirittura con cagliate provenienti da non si sa quale paese? Ma le pare giusto che il 40% degli alimenti consumati in Italia è falso made in Italy senza alcuna indicazione in etichetta? E come possiamo pretendere di tutelare all’estero l’immagine della nostra tavola, se ci sono imprenditori italiani che delocalizzano l’attività e poi vendono quei prodotti come made in Italy. No, non è giusto, non si può continuare così: il sistema agroalimentare italiano è ancora sano e non merita questa deriva”.
Il presidente della Coldiretti Sergio Marini è un fiume in piena. All’indomani del braccio di ferro nella rappresentanza Stato-Regioni in materia di Ogm, con gli assessorati all’agricoltura schierati all’unanimità contro le scelte di apertura ai prodotti biotech, Marini rompe gli indugi e attacca su più fronti. Lo fa con questa intervista rilasciata in esclusiva a “Panorama Economy”, alla vigilia del 10° Forum internazionale sull’agricoltura e l’alimentazione, organizzato con lo Studio Ambrosetti, in calendario dal 15 al 17 ottobre a Villa d’Este di Cernobbio.
-Presidente Marini, lei ha definito la posizione delle Regioni sull’Ogm importante per il futuro dell’agroalimentare made in Italy. Perché?
Il no delle rappresentanze periferiche ha una doppia valenza politica ed economica. È politica perché per la prima volta c’è una indicazione unanime su quella che dev’essere la linea di condotta dell’Italia sulle coltivazioni Ogm. Cioè, no. Finora il nostro paese a Bruxelles ha scelto la strada dell’attesa, evitando di prendere posizioni. Il ministro Galan si è espresso a favore del metodo per avviare la sperimentazione, ma non ha mai detto da quale parte stare, se intende andare verso il sì o verso il no. Ecco che la decisione unanime degli assessorati all’Agricoltura taglia la testa al toro, fissando la linea guida che il ministero ora deve portare avanti in sede comunitaria. Tenga conto che su 27 paesi Ue solo sei si sono schierati a favore del biotech. Addirittura la Francia e la Germania si sono appellate alla “clausola di salvaguardia” per preservare le loro coltivazioni tradizionali da contaminazioni che potrebbero arrivare da fuori.
– Qualche giorno fa la Procura della Repubblica di Pordenone ha condannato un agricoltore friulano con 25mila euro di multa e la distruzione del raccolto che ha prodotto utilizzando sementi genericamente modificate. C’è qualche nesso con la decisione di campo degli assessorati agricoli?
Direi di no. L’esempio a cui lei fa riferimento è la dimostrazione di come non si deve fare agricoltura. Anche perché non è questo il modo di tutelare gli interessi degli agricoltori e dei consumatori. E vengo alla ragione economica. Gli Ogm non risolvono i mali della fame nel mondo, non migliorano il reddito degli agricoltori, ma fanno ricchi solo le multinazionali che producono i semi. Lo hanno capito anche nei paesi Ue dove le coltivazioni Ogm hanno avuto via libera: quest’anno le superfici coltivate sono crollate del 12 per cento.
– Quindi niente ricerca in agricoltura?
E chi l’ha detto. Noi siamo a favore della ricerca ma non alla sperimentazione all’aperto in pieno campo per gli evidenti rischi di inquinamento che comporta. Spetta alla scienza dare tutte le garanzie sanitarie. Questo la scienza non l’ha ancora fatto e noi diciamo no ad autorizzazioni alla cieca che potrebbero rivelarsi letali all’ecosistema, alla salute delle persone, com’è accaduto con i vari eternit, coloranti, farine di animali e molti altri esempi ancora.
– Tutto questo però non c’entra nulla con la tutela del made in Italy?
Invece le rispondo che c’entra, eccome. Il cibo e le bevande italiane sono apprezzati e desiderati da noi e nel mondo intero. È un fatto oggettivo che dei nostri prodotti piace la qualità intrinseca, l’unicità del gusto, il valore immateriale che essi evocano associati alla cultura e al territorio di provenienza. Non è un caso che i consumatori sono disposti a spendere di più per acquistare i prodotti a denominazione di origine protetta (Dop). Mentre gli Ogm sono la negazione assoluta di questi valori unici, sono la massificazione dell’offerta, l’omologazione dell’oggetto, l’annullamento del piacere soggettivo. Una volta tutti uguali gli alimenti possono essere italiani, cinesi, sudafricani, brasiliani che non interessa più a nessuno. Invece…
– Invece, scrivendo made in Italy in etichetta basta a garantire il consumatore da clonazioni e falsi? Non mi pare che sia così, visto il crescente malcostume delle imitazioni.
Certo che non è così. Motivo per cui noi della Coldiretti non abbasseremo mai la guardia, chiedendo a gran voce che in etichetta si indichi l’origine della materia prima per tutti gli alimenti. Finora siamo riusciti a ottenere questo risultato per carne bovina e di pollo, ortofrutta fresca, uova, miele e latte fresco, passata di pomodoro e olio extravergine d’oliva. Mancano all’appello tutti gli altri, e noi vogliamo impedire di spacciare come made in Italy prodotti che arrivano dall’estero.
– La legge sul made in Italy è però chiara in proposito: è importante che in Italia avvenga l’ultima parte della lavorazione, quella che dà valore aggiunto e caratterizza il prodotto finale.
Facciamo chiarezza. Noi non diciamo di bloccare le importazioni di materie prime, diciamo che in etichetta si scriva quali sono le materie prime utilizzate e da dove provengono. In questo modo noi sconfiggeremmo quelli che Coldiretti denuncia essere i due grandi furti ai danni dell’agroalimentare italiano. Il primo è sul valore aggiunto: se i prezzi all’origine sono bassi, la colpa non è della crisi internazionale, ma delle distorsioni presenti lungo tutta la filiera, per cui c’è una parte intermedia che se ne avvantaggia ai danni delle imprese agricole, da un lato, e dei consumatori, dall’altro. Il secondo furto invece colpisce l’identità: fino a quando nell’etichetta non si indicherà l’origine del prodotto, chiunque si sente autorizzato a usare loghi, messaggi e slogan che richiamano il made in Italy senza che in quel prodotto ci sia alcunché di italiano.
– Un obiettivo a portata di mano, dopo il recente via libera della Commissione agricoltura della Camera alla discussione della nuova legge sull’etichettatura degli alimenti.
Sì, la norma approvata va in questo senso. Però non abbiamo idea quanto tempo sarà necessario per arrivare all’obiettivo finale. Nel frattempo come Confederazione Coldiretti abbiamo varato il progetto della “Filiera agricola tutta italiana” con il quale le aziende coinvolte si fanno carico di dare garanzia al 100% dell’origine tutta italiana dei prodotti messi in commercio. Il progetto è articolato e prevede la partecipazione di diversi soggetti imprenditoriali che hanno dato la loro disponibilità. Così accanto alle aziende agricole, ci sono cooperative, consorzi agrari e la rete di “Campagna amica” che raggruppa negozi gestiti direttamente da agricoltori e i punti vendita dei farmer markets, che ormai si contano a centinaia in tutta la Penisola.
– Cooperative, consorzi agrari, punti vendita veri e propri che per essere parte attiva del progetto sono degli associati a Coldiretti. Presidente Marini, sta dicendo che oggi Coldiretti non è più solo una confederazione di aziende agricole?
Certo che no. Oggi Coldiretti ha più di 1,65 milioni di iscritti, oltre il 66% della rappresentanza agricola nazionale. La stragrande maggioranza sono coltivatori diretti, piccole e grandi aziende che lavorano in agricoltura, ma accanto a questi soggetti ci sono anche numerosi consorzi agrari e cooperative che a loro volta dispongono di reti commerciali ben ramificate sul territorio e imprese che dispongono di prodotti di marca. Che rientrano a tutti gli effetti nel progetto della filiera tutta italiana.
– Tutto questo tre anni fa, quando lei ha assunto la leadership di Coldiretti non esisteva. Sta dicendo che la campagna lanciata un anno e mezzo fa per fare proselitismo, facendo arrabbiare le Confederazioni sorelle, ha portato dei frutti. Quanti?
Il mondo sta cambiando in fretta. Nuovi poteri si vanno formando e le associazioni di categoria non possono restare ferme, ancorate a vecchi schemi. Oggi non c’è più nulla che permette di vivere di rendita. Quando abbiamo deciso di allargare l’orizzonte della nostra Confederazione qualcuno s’è risentito. Ci hanno accusato di andare a pescare in casa d’altri. Non era così, né poteva esserlo. Se oggi noi abbiamo almeno duemila nuovi associati che appartengano a cooperative e quant’altro non è perché li abbiamo scippati ad altri, ma è perché questi nuovi soci sono venuti anche noi perché hanno compreso il nostro messaggio. Che non è più rivolto a una rappresentanza che considerava centrale il rapporto con la politica per risolvere i problemi del settore. Oggi noi stiamo lavorando per una rappresentanza che cerca di comprendere i bisogni del cittadino consumatore, dal quale dipende il successo delle imprese. Se da un prodotto agricolo indifferenziato si passa a un soggetto che produce cibo, la rappresentanza deve conseguentemente guardare all’intera filiera e, da qui, interloquire col consumatore.
– Ma il consumatore come lo difendete se, per esempio, sull’annoso problema delle quote latte, non vi opponete all’assurdo balletto delle multe pagate dallo Stato italiano alla Ue, quindi da tutti, e non da chi ha commesso realmente il reato di produrre fuori dalle quote?
Sulle quote latte c’è molta disinformazione. E qualcuno ci sguazza. Noi siamo per il rispetto della legge sempre e dunque chi non ha versato le multe deve pagarle. Ma se si dovesse confermare come alcuni sostengono che lo stato ha sbagliato i conti allora lo Stato lI rifaccia per l’ennesima volta, ma visto che venti anni non sono bastati, restituisca intanto i 2,4 miliardi di euro agli allevatori che hanno versato multe non dovute. Noi siamo per il rispetto della legge, ma questo principio deve valere per tutti. Anche per lo Stato. Da un nostro studio è emerso che i produttori di latte in regola a tutt’oggi hanno subìto costi ingiusti per la gestione delle quote latte pari a 2,42 miliardi di euro. È una somma enorme di cui Coldiretti chiede, nel caso si acclarino errori, che venga restituita ai legittimi proprietari. Cioè, agli allevatori che hanno fatto il proprio dovere, hanno rispettato la legge e sono stati vessati da multe che non avrebbero dovuto pagare. La questione ha monopolizzato il dibattito parlamentare e rischia di fare passare sotto silenzio i veri problemi degli allevamenti da latte che sono il prezzo, le contraffazioni e le importazioni anonime.