L`intervista al presidente della Coldiretti Ettore Prandini sul Sole24Ore di Micaela Cappellini
Le risorse a sostegno delle imprese colpite dai dazi di Trump devono essere quantificate in base al peso che ciascun settore ha sull’export verso gli Stati Uniti. All’agroalimentare, dunque, dovrà andare almeno il 13% di tutti i fondi stanziati dal governo. È questo il messaggio che il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini, ha consegnato alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e ai ministri che ha incontrato insieme ai rappresentanti delle altre organizzazioni agricole italiane nel corso delle consultazioni dedicate all’emergenza dazi. I fondi di compensazione però non bastano, sostiene la Coldiretti. Perché le imprese agricole hanno bisogno anche di altri supporti finanziari: dall’aumento delle risorse per la promozione sui mercati esteri fino a un fondo di garanzia speciale per sostenere la liquidità degli importatori
americani che si trovano a dover pagare un surplus di dazi al momento dello sdoganamento
delle merci. Presidente Prandini, cominciamo col ricordare quale è l’impatto dei dazi sul made in Italy agroalimentare. L’export agroalimentare italiano negli Stati Uniti nel 2024 ha segnato il record di sempre, con 7,8 miliardi di euro. A guidare la classifica dei prodotti più venduti c`è il vino, con 1,94 miliardi, seguito dall`olio con 940 milioni di euro, dalla pasta con 670 milioni e dai formaggi con 490 milioni. Ma il dato davvero interessante riguarda i trend di crescita delle
esportazioni oltreoceano: dal 2019, cioè l’anno prima della pandemia, al 2024 è schizzato del 69%. Abbiamo oltre 11mila imprese registrate presso la Food and drug administration per poter esportare cibo e vino negli Usa. Imprese che negli ultimi dieci anni hanno investito significativamente per poter prima aprire e poi consolidare la presenza sul mercato
statunitense. Nel primo anno di applicazione i dazi sull’agroalimentare Made in Italy potrebbero costare 3 miliardi alle imprese italiane soltanto tra mancate vendite e mancata crescita, ai quali
andrebbero aggiunti il deprezzamento dei prodotti e le altre spese, con un effetto dirompente sulle filiere.
Il governo ha promesso 25 miliardi di aiuti: quanto deve andare alle imprese
agroalimentari ?
A noi deve andare almeno il 13% delle risorse stanziate. Indipendentemente dalle richieste avanzate dai vari settori, il sostegno deve essere ripartito in base al peso che ogni settore ha sui 67 miliardi di export italiano totale verso gli Stati Uniti. E l’agroalimentare rappresenta appunto circa il 13% del totale. Questo anche per evitare che ci possano essere
comparti che finiscano con l’avvantaggiarsi rispetto ad altri.
Al governo avete chiesto anche altre risorse, oltre ai fondi di compensazione ?
Sì. Abbiamo chiesto un incremento significativo degli stanziamenti dedicati alla
promozione delle imprese sui mercati internazionali. Il governo ha già promesso che lo
farà. In questo momento è importante spingere il Made in Italy non solo sui mercati
emergenti, ma anche sullo stesso mercato Usa, che per il comparto agroalimentare è il secondo per importanza e per noi non è sostituibile da nessun mercato emergente. Abbiamo inoltre
chiesto di istituire un fondo con garanzie pubbliche per sostenere la liquidità delle imprese
importatrici. Il sistema americano prevede, oltre alla figura dei distributori, anche
quella degli importatori, ai quali spetta il compito di sdoganare le merci. Da oggi, per farlo, questi soggetti devono pagare immediatamente il 20% in più per colpa dei dazi, e molti di loro
hanno già fatto sapere alle nostre aziende di non avere sufficiente liquidità per poterlo
gestire. Per questo serve un fondo di garanzia da mettere in piedi in tempi rapidi, con l’aiuto
delle nostre agenzie Ice, Sace, Simest e Cdp: gli anticipi così erogati verrebbero poi restituiti
nel momento in cui la vendita delle bottiglie va a buon fine.
In questi giorni alcune aziende italiane della trasformazione alimentare hanno avanzato l`ipotesi di delocalizzare negli Stati Uniti la produzione destinata ai consumatori americani, in modo da aggirare i dazi. Lei cosa ne pensa?
Io faccio una netta distinzione tra chi va a realizzare negli Stati Uniti uno stabilimento per il
confezionamento del prodotto e tutti gli altri. Nel primo caso, che avviene spesso nel comparto dei salumi e dei formaggi, si tratta di un’operazione utile a ridurre le complicazioni e i costi della
logistica. In tutti gli altri casi, delocalizzare negli Usa sarebbe come dare la vittoria a Trump. E
sarebbe ancora più grave se queste industrie mettessero il tricolore sulle confezioni dei loro
prodotti, perché sarebbe una forma di Italian sounding a tutti gli effetti. Mi aspetto che gli
imprenditori più lungimiranti se ne guardino bene.