| L’intervista a Paolo De Castro sulla riforma Pac
 Pubblicata su Agrifood News Nomisma di settembre 2025 La proposta della Commissione europea di ridurre del 25% le risorse destinate alla Politica Agricola Comune per il periodo 2028-2034 e l’impatto dei dazi statunitensi sui prodotti comunitari stanno scuotendo il settore agroalimentare. Si preannuncia un autunno caldo? Ne è convinto Paolo De Castro, Presidente di Nomisma e di Filiera Italia, che sottolinea innanzitutto le conseguenze della nuova PAC, qualora venisse confermata nei prossimi mesi: «Dai 384 miliardi previsti si passerebbe a circa 300 miliardi, un taglio significativo per la politica agricola, che ha messo in allarme istituzioni e imprese». In questo scenario, di per sé motivo di apprensione, si innesta l’accordo con gli Stati Uniti sui dazi: «Per molti prodotti destinati agli USA – tra i quali il vino, l’olio d’oliva e le conserve di pomodoro – si tratta di miliardi di export a rischio. Del resto, dobbiamo considerare che l’Italia da sola esporta oltroceano circa 8 miliardi l’anno di prodotti agroalimentari». Per De Castro, tuttavia, la partita non è chiusa: «La proposta sul Quadro Finanziario Pluriennale (QFP) dovrà passare dal Parlamento Europeo e dal Consiglio dell’UE, dove mi auguro ci possa essere spazio per introdurre correttivi per migliorarla». Uno dei punti più controversi è proprio la creazione di un Fondo unico, nel quale la Commissione ha deciso di far confluire risorse e capitoli di spesa che in passato erano separati, dalle politiche di coesione a quelle della pesca, fino allo sviluppo rurale. «In teoria, questa nuova architettura finanziaria potrebbe concedere agli Stati membri maggiore flessibilità, consentendo di ricostruire, almeno in parte, un “secondo pilastro” della PAC. Ma resta tutto da definire in sede negoziale» – avverte. Ad ogni modo, le preoccupazioni degli operatori del settore agroalimentare sono giustificate da un paradosso: «Il bilancio dell’Unione Europea non è diminuito, anzi, è cresciuto. Eppure la PAC, che è la più storica e importante politica comunitaria, viene ridotta del 25%. È inevitabile che questo generi timori e perplessità». Un altro punto critico emerso nel recente dibattito è quello della rinazionalizzazione delle politiche agricole: «Abbiamo impiegato più di 60 anni a costruire una politica agricola comune, che ha permesso al comparto di crescere e prosperare. Con l’ampliamento dei poteri agli Stati membri e la possibilità di gestire in autonomia le risorse, rischiamo che ognuno faccia da sé. E questo, di fatto, sarebbe l’inizio della fine della PAC», commenta De Castro. La spaccatura è lampante: Italia, Francia, Spagna e Grecia – ovvero i maggiori produttori delle eccellenze agroalimentari europee – puntano su un’agricoltura forte e integrata, mentre i Paesi del Nord Europa sono portati a percepire le politiche comunitarie come un costo eccessivo. «Ma ricordiamoci che l’agroalimentare è il primo settore europeo per fatturato, export e occupazione. Sminuirne il suo ruolo e frammentare le attività a livello nazionale sarebbe un errore strategico, con evidenti ricadute sul piano economico oltre che sociale». Spostandosi sull’altro lato dell’Atlantico, l’accordo raggiunto con Washington non entusiasma gli operatori dell’agroalimentare. «Certamente il giudizio non può essere positivo: prima per la maggior parte dei nostri prodotti i dazi non c’erano mentre oggi paghiamo il 15%, a meno di clamorosi ripensamenti da parte della Corte Suprema USA presso la quale è stato presentato un ricorso da parte di alcuni importatori locali». Ma le ricadute negative non si fermeranno all’Europa: «Anche per il mercato americano i dazi saranno un problema, perché inevitabilmente faranno crescere i prezzi per i consumatori finali e ridurranno i margini delle imprese che importano prodotti italiani». De Castro aggiunge una previsione: «Questa situazione sarà più evidente fra sei mesi, al massimo un anno. Per questo è molto importante in questa fase prendere tempo, non ribattere con i contro dazi, e aspettare le elezioni di Midterm, quando il tema dell’inflazione potrebbe tornare prioritaria inducendo l’amministrazione Trump a rivedere le barriere doganali». Eppure, c’è anche un rovescio della medaglia: «Rispetto a competitor come Sudafrica, Australia o Canada, che pagano dazi ancora più alti dei nostri, l’Europa potrebbe avere un vantaggio competitivo e conquistare nuove quote di mercato». La questione dazi si intreccia anche con le politiche valutarie perché un euro forte rispetto al dollaro, come in questo momento, amplifica ulteriormente gli impatti negativi sulle nostre esportazioni. Ma la guerra commerciale con gli USA richiede un’attenta riflessione anche sugli standard europei in termini di qualità e sicurezza alimentare. Le rassicurazioni arrivano dal commissario europeo al commercio, Maroš Šefčovič, che ha garantito che i paletti fissati dall’UE non verranno messi in discussione. De Castro conferma: «Il Commissario ha assicurato che tutte le regole europee non saranno cambiate e non c’è disponibilità a modificare gli standard di qualità che da tempo abbiamo adottato nella Unione Europea a livello di OGM, ormoni, antibiotici, fitofarmaci e pesticidi». Il punto cruciale, per De Castro, è ancora una volta rappresentato dalla reciprocità: «Ci aspettiamo che non solo le regole non vengano toccate, ma che siano mantenuti i presupposti per evitare una distorsione della concorrenza. In altre parole, non possiamo permettere che gli americani esportino in Europa prodotti che non osservano gli stessi parametri e vincoli imposti ai produttori europei». Lo stesso vale anche per l’accordo con il Mercosur: «Il tema della reciprocità è centrale anche i prodotti agroalimentari che provengono dall’America Latina, che dovranno essere conformi alle nostre regole su benessere animale, sicurezza o uso di ormoni e antibiotici». Ribadita la difesa degli standard e delle regole comuni, l’attenzione si sposta su un altro fronte decisivo: la capacità dell’Europa e dell’Italia di continuare a crescere sui mercati esteri. «La leva principale per la crescita è la promozione. Ad esempio, se l’Europa e la stessa Italia sono diventati leader mondiali nel vino lo dobbiamo alle politiche comunitarie di sostegno: sono ben 500 i milioni di euro l’anno stanziati per questo comparto a livello europeo, di cui 100 destinati proprio all’Italia». Rafforzare le risorse dedicate alla promozione, quindi, significherebbe dare respiro a tutti i comparti dell’agrifood, sostenendo le PMI nell’approcciare mercati lontani e spesso caratterizzati da un’elevata competizione. «Abbiamo bisogno di strumenti conoscitivi e finanziari in grado di coprire i costi promozionali: senza un adeguato supporto, le imprese più piccole faticano a farsi conoscere all’estero e ad aprire nuovi mercati». Le nuove prospettive di export passano necessariamente attraverso Asia e America Latina: Giappone, India, Messico e Mercosur sono aree da osservare con grande attenzione. «Non si tratta di sostituire il mercato americano – cosa che in tempi brevi sarebbe impossibile considerando i volumi di nostri prodotti che assorbe – ma di affiancarlo cercando a livello globale nuove opportunità di crescita, per le quali la promozione resta determinante», riconosce De Castro. Un altro asset fondamentale riguarda i marchi e i segni distintivi dell’agroalimentare italiano. «La forza dei nostri prodotti sta nei marchi: le DOP, le IGP e i brand aziendali riconosciuti a livello internazionale sono strumenti che tutelano l’identità, danno valore al territorio e proteggono i consumatori dalle imitazioni». In un contesto di mercati instabili e di una concorrenza globale sempre più agguerrita, il brand diventa quindi una leva di competitività: «Investire sui marchi e sulla loro promozione, collettiva o individuale, significa difendere la qualità italiana e rafforzarne il posizionamento all’estero». | 
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