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Favismo: crisi non legate al polline di fava, ora uniformare la normativa

Con il primo maggio e il richiamo della tradizione si ritorna a parlare del simbolo gastronomico per eccellenza, la fava, questa volta in termini di sicurezza alimentare e rispetto a un quadro normativo che sarebbe da chiarire. Appartenente alla famiglia delle leguminose e il suo nome botanico è Vicia faba (o anche Faba vulgaris). Nell’ambito della specie sono distinguibili tre varietà in base alla dimensione dei semi, ma quella che viene utilizzata per l’alimentazione umana è la Vicia faba maior. Costituite da quasi l’84% di acqua, le fave fresche sono un alimento a  bassissimo contenuto calorico, circa 40 kcal  l’etto, rispetto ad altri legumi (ad esempio fagioli freschi con 291 kcal, piselli con 52 kcal e ceci secchi che ne apportano 316) e  sono oltretutto un ottimo alleato per la salute.

Contengono circa 5 g di fibra pari ad 1/6 di quanto se ne dovrebbe assumere al giorno, utile per aumentare il senso di sazietà e ridurre il colesterolo. Sono un’ottima fonte di ferro e potassio e discreta fonte proteica; i grassi sono praticamente assenti. Le fave sono anche un’eccellente fonte di vitamina C, 33mg/100g, più della metà di quanto raccomandato giornalmente per un individuo adulto, beneficio che tuttavia si viene a perdere con la cottura. Importante è il contributo delle fave anche con l’apporto di tocoferoli, sostanze che riducono in danneggiamento cellulare proteggendo da malattie cardiovascolari e diverse forme di cancro.

Purtroppo questo prezioso alimento deve essere completamente assente dalla dieta di numerosi individui affetti dalla malattia nota come favismo, un difetto congenito ed ereditario dell’enzima glucosio 6-fosfato deidrogenasi presente nei globuli rossi ed essenziale per prevenire l’accumulo di radicali liberi. Questa patologia consente di condurre una vita perfettamente normale, a patto che ci siano ovviamente alcuni accorgimenti nella propria alimentazione come evitare l’ingestione di fave, soprattutto fresche, oppure controllare le sostanze sospette che possono scatenare la sintomatologia.

Oggetto di controversie è invece  il polline delle fave in fiore. Infatti, fino al 2008 la normativa prevedeva la possibilità di richiedere un’ordinanza comunale che vietasse la coltivazione di fave nel raggio di 300-500 metri dall’abitazione di un soggetto affetto. Nel 2008 una nota del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali relega invece ai Sindaci la facoltà di emettere o meno l’ordinanza restrittiva, in quanto dichiara che non esistono prove sufficienti che correlano le crisi emolitiche con l’inalazione di polline di fave e piselli. 

Fa eco nel 2012 il parere del Ministero della Salute. Il Comitato nazionale per la Sicurezza Alimentare ha infatti concluso che l’ingestione di altri legumi come piselli e fagioli non rappresenta un rischio e che non tutti i portatori del difetto enzimatico subiscono crisi emolitiche dopo l’ingestione di fave. Inoltre, il Comitato ha rassicurato sul fatto che le sostanze contenute nelle fave che sono responsabili della sintomatologia, non sono presenti nei fiori e non sono neanche volatili. Oltretutto, il numero di prove che correla l’inalazione di polline nei campi di fave in fiore e il malessere nei soggetti è tutt’oggi molto esiguo. Nonostante questo in molti Comuni sono ancora legittimamente in vigore restrizioni alla coltivazione e al commercio. Da qui la necessità di chiarire definitivamente gli aspetti relativi all’insorgenza delle crisi emolitiche e, soprattutto, di uniformare la normativa per ritornare a privilegiarne la coltivazione e il commercio.

Patrimonio delle nostre tradizioni culinarie, nel 2012 la produzione nazionale di fave, sia fresca che da granella, è stata in totale di più di 1.366.000 quintali con un totale di quasi 53.000 ettari di terreno destinati a questa coltura, dati che pongono il nostro paese in ottava posizione a livello mondiale (2011).

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