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Produrre cibo nei prossimi decenni, tra bomba demografica e cambiamento climatico

Come raggiungere la food security, ovvero la fornitura di cibo in quantità sufficienti, in un’epoca in cui il cambiamento climatico sta mettendo a rischio i raccolti mondiali? Questa la sfida che un nuovo rapporto internazionale – Achieving food security in the face of climate change – cerca di affrontare. Il testo è stato curato da un gruppo di esperti internazionali che si sono confrontati sul tema, la Commission on Sustainable Agriculture and Climate Change, iniziativa di CGIAR e CCAFS (Climate Change, Agriculture and Food Security) iniziativa decennale di ricerca decennale lanciata dal Consultative Group on International Agricultural Research (CGIAR) and the Earth System Science Partnership (ESSP).

Il lavoro è stato iniziato nel 2011 e finalizzato in questi giorni. Tra gli obiettivi che la Commissione di studio si era proposta, l’identificazione dei cambi di policy necessari e delle azioni utili per permettere di raggiungere un’agricoltura sostenibile su scala mondiale, che possa contribuire alla food security e alla riduzione della povertà, aiutando nello stesso tempo a rispondere alla sfida dell’adattamento al cambiamento climatico.

I membri della Commissione di studio sono stati selezionati tra un gruppo di ricercatori di chiara fama che avessero una sufficiente comprensione dei processi politici a livello nazionale, regionale e globale. Dotato di competenze interdisciplinari (in materie come agricoltura, climatologia, ecologia, economia, nutrizione, salute, commercio) il gruppo è stato formato da personalità provenienti da tutto il mondo, con un bilanciamento tra aree.

Non solo 9 miliardi di abitanti da sfamare entro il 2050, ma anche un clima che sta virando su fenomeni sempre più estremi, e un uso delle risorse che è diventato più chiaramente insostenibile: con queste premesse, urge ridisegnare in profondità le reti e le filiere alimentari odierne, le modalità di sfruttamento del suolo, e il più generale modello dell’agricoltura industriale come si è affermato su scala mondiale dagli anni ’60 in poi.

Ogni anno, stimano i ricercatori, 12 milioni di ettari agricoli vanno perduti a causa delle degradazione del suolo, dovuta a diversi fenomeni come l’erosione (perdita di fertilità a causa di sfruttamento eccessivo), l’abbandono conseguente a fenomeni di urbanizzazione selvaggia, la desertificazione, la salinizzazione. Si perde così l’equivalente di 20 milioni di tonnellate di grano ogni anno. Inoltre, circa un terzo del cibo prodotto dalle attuali filiere agroalimentari mondiali va perduto o sprecato mentre circa 2 miliardi di persone vivono in zone desertiche, e un ulteriore miliardo e mezzo in terre connotate da erosione del suolo, con reali problemi di accesso al cibo.

Fenomeni climatici estremi – come alluvioni, siccità, alte temperature – hanno avuto un forte impattato e ancora di più ne avranno sulla disponibilità alimentare, mentre le fluttuazioni dei prezzi colpiscono le popolazioni più povere, con un basso potere d’acquisto. La sfida è allora quella di costruire sistemi alimentari sostenibili, con sistemi produttivi resistenti alle crisi di varia natura, in grado di fare un uso efficiente delle risorse, con sprechi più limitati, e assicurando una efficiente nutrizione e al contempo promuovendo scelte alimentari salubri.

Affinché non rimangano parole vuote, è necessaria una agenda precisa di quali azioni portare avanti, quando e come. Il che richiede di focalizzarsi sulle aree geografiche che sono maggiormente minacciate dai vari fattori di rischio, e lì cominciare ad agire. Da qui al 2080 – questa la proiezione effettuata dai ricercatori – molte aree geografiche aumenteranno la produttività, verosimilmente, del 15% (Europa, Cina, Argentina) mentre ci sarà un crollo della produttività nell’ordine anche del 50% per molti Stati africani, America centrale e Sud America), con un aumento di oltre il 35% per alcune zone degli Usa e Paesi scandinavi.

Ma a quanto pare la vera sfida non è un aumento globale della produzione in quanto tale, sperando in un effetto “gocciolamento” dai Paesi più dotati di cibo a quelli meno dotati, quanto piuttosto rendere la produzione vicina a chi produce, soprattutto in Paesi con forte deficit di food security ed esposti alle fluttuazioni dei prezzi internazionali. Un certo grado di autosufficienza alimentare diventa quindi la condizione fondamentale per proteggere fasce esposte come i bambini entro i 3 anni e le madri.

La logica sembra pertanto quella di consentire ai piccoli produttori su scala mondiale di poter essere in grado di produrre cibo, permettendo alle piccole economie di crescere. Tra le misure utili: un sistema di previsione e controllo delle fluttuazioni estreme dei prezzi alimentari, dando luogo ad una maggiore trasparenza e scambio di informazioni sui mercati; una “rete di protezione” per le fluttuazioni dei prezzi alimentari, per tutelare i gruppi di popolazione più vulnerabili; lo sviluppo di fondi di investimento con ruolo assicurativo, in grado di rispondere agli shock climatici estremi, attraverso partnership pubblico-privato.

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