il Punto Coldiretti

Semaforo in etichetta, paesi mediterranei in rivolta

Durante un recente Consiglio dei Ministri dell’Ue, ben 9 Stati membri hanno condiviso le preoccupazioni dell’Italia circa la discriminazione di alimenti nutrizionalmente “non ingegnerizzati”per rispettare il sistema anglosassone. In questi giorni il tema verrà nuovamente discusso dai ministri dell’Agricoltura Ue, ma già da ora si sa che durante l’ultimo Consiglio dei Ministri (della settimana scorsa), in molti si sono allineati alle richieste dell’Italia. Spagna, Lussemburgo, Repubblica Slovacca, Cipro, Francia, Portogallo, Grecia, Romania e Slovenia hanno lamentato che la misura nazionale di informazione nutrizionale ai consumatori adottata dalla distribuzione inglese potrebbe distorcere il libero commercio comunitario.

Questa misura prevede l’assegnazione di un verde, un giallo o un rosso come rating per segnalare in etichetta la correttezza nutrizionale rispetto a zuccheri, grassi, grassi saturi e sale. Con l’effetto paventato di scoraggiare il consumo di alimenti anche sani, ma comunicati male, come molti della tradizione italiana (ad esempio formaggi a pasta dura e salumi). Che se consumati nelle proporzioni giuste, non solo non sono dannosi, ma anzi, sono difficilmente sostituibili e alla base di diete nazionali. Ma, soprattutto, la misura mette alla berlina prodotti ad alto contenuto agricolo, favorendo i corrispettivi prodotti “industriali, se è vero che nella stessa Inghilterra, anche gli agricoltori della National Farmers’ Union sono fortemente contrari alla proposta.

Da fonti ufficiali si apprende che Tonio Borg, Commissario alla Salute e Consumatori, starebbe osservando da vicino l’evoluzione della materia. Mentre la Commissione, in una risposta ufficiale al Parlamento Europeo, aveva dichiarato che – sebbene non considerasse a priori distorsivo il sistema – era pronta a considerare poi come il mercato si sarebbe effettivamente comportato. Per intervenire in caso di impedimento della libera circolazione di merci.

Tra i punti poco chiari dello schema inglese, la sua presunta volontarietà. E’ tale volontarietà ad essere oggi usata dai fautori dello schema, a indicare che i produttori sono liberi di usarlo o meno. Se lo schema fosse solo volontario – è la linea di ragionamento seguita – non avrebbe la pretesa di regolare il mercato nel suo insieme, ed i suoi effetti potrebbero essere in qualche modo circoscritti. Questa ipotesi impedirebbe una ben più grave distorsione degli assetti profondi del mercato, che si verificherebbe nel caso di uno schema “obbligatorio” e valido per tutti gli operatori.

Ma qui le cose si complicano. Se infatti è vero che lo schema nasce come iniziativa di tipo volontario, le dimensioni che ha assunto oggi – con oltre il 60% (in crescita, peraltro) dei retailers inglesi che lo hanno adottato – lo configurano come uno schema quasi-obbligatorio. Ed i piccoli produttori italiani che volessero accedere al retail britannico dovrebbero perciò utilizzare tale forma di etichettatura, nella realtà quotidiana. In particolare, i piccoli e medi produttori con un potere negoziale naturalmente limitato rispetto a quelli di grandi attori come Tesco o Waitrose, ne uscirebbero fortemente penalizzati.

Sia per i costi da sostenere in caso di nuove etichette. Sia per un impatto di mercato non ancora chiarissimo. Non si sa infatti come potranno reagire i consumatori britannici, ma è facile ipotizzare un calo dei consumi degli alimenti con rosso e giallo. Lo stesso olio extravergine di oliva può uscirne assai ridimensionato. Si tratterà allora di far valere un asse mediterraneo, che comincia a profilarsi come unità distinta, in giorni in cui le differenze in Europa sembrano cominciare a contare anche a “tavola”, e non solo sulla pur già travagliata e più ampia scena politica.

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